Famiglia prima impresa – introduzione
Vorrei partire, per introdurre l’urgenza e l’attualità del tema scelto per questo primo Seminario, dalle parole di Papa Benedetto XVI che si leggono nell’Enciclica Caritas in Veritate: “La vittoria sul sottosviluppo richiede … soprattutto la progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione. Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco”. E ancora, afferma il Papa: “Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l’impresa”.
Esistono, cari amici, forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione più limpide ed evidenti delle “famiglie”? Nel 2008, forse con qualche intento anche provocatorio, su L’Osservatore Romano si leggeva: La famiglia meriterebbe un Nobel per l’economia. Magari insieme al cristianesimo, per il valore che nei secoli ha attribuito a questo indispensabile nucleo sociale. I danni arrecati a una società in cui la famiglia non viene sostenuta in modo adeguato sono evidenti: si scivola inevitabilmente verso la confusione e verso quella deresponsabilizzazione personale che è frutto della mancanza di aspirazioni e valori condivisi. Se non si promuove la famiglia si genera però anche disorganizzazione e impoverimento sociale. E, se fosse possibile, bisognerebbe quotare in Borsa la famiglia: perché genera un valore economico sostenibile, che crea ricchezza per la collettività. Senza bisogno di miracoli.
Quotare in Borsa la famiglia, riconoscerle un premio per la funzione economica che svolge: non spetta certo a me discutere sulla verosimiglianza di tali proposte. Ma senza dubbio lo scopo principale per cui ho voluto aprire i nostri Dialoghi per la Famiglia con un seminario di studio dal titolo “Famiglia, prima Impresa” è quello di mettere a tema il valore fondamentale, e dunque anche economico, che nel momento attuale assume la famiglia come soggetto autonomo che sostiene la comunità, come pilastro indiscutibile su cui poggia ogni convivenza umana. Non è certo neppure un caso che questo primo Seminario si situi in profonda continuità coi maggiori tema affrontati nell’ultimo Incontro Mondiale delle Famiglie, a Milano, soprattutto quello del rapporto tra famiglie e mondo del lavoro. Si dirà che la famiglia non è prima di tutto una “forma di attività economica”. Che non nasce, nel piano della salvezza, per diventare un’impresa. Eppure lo sappiamo tutti: la famiglia produce ricchezza, fornisce servizi, sostiene l’economia in crisi, supporta e sostituisce lo stato sociale quando questo è debole. La famiglia investe sui propri figli, risparmia e investe i propri risparmi, tutela e difende i suoi membri più fragili e deboli come gli anziani e i bambini, i malati. La famiglia, come tutte le imprese, rischia. Rischia nel mettere al mondo figli, nell’introdurli alla vita sociale. Ma la famiglia, come auspica Caritas in Veritate, è una forma di attività economica altamente – direi – caratterizzata da quote di gratuità e comunione. La gratuità e la comunione che si vivono e si sperimentano nella famiglia hanno un valore. Un valore anche economico. Il gratuito conta, la generosa gratuità delle relazione familiari più pure e genuine hanno un valore che la società e gli Stati non possono più trascurare. La grave crisi economica in cui siamo immersi avrebbe risvolti ancor più gravi, lo sappiamo, se non potessimo contare sui servizi e sul sostegno che la gratuità dell’amore familiare immette nel circolo dell’economia come un valore aggiunto e – purtroppo, ben poco riconosciuto.
Vorrei insistere ancora su questo: la famiglia produce servizi a favore di se stessa e dei suoi membri. Da questo fatto si può facilmente dedurre che la famiglia non si limita a consumare. Al contrario, come un normale soggetto economico produttivo, la famiglia, possedendo i medesimi requisiti delle imprese in generale (organizzazione, economicità, professionalità), investe le sue risorse per svolgere appieno i suoi compiti. Infatti, ciò che pare dimenticato, è che la famiglia rappresenta la “proto impresa” [e non è un caso che la stessa parola economia derivi dal greco οίκία (anche famiglia) e νόμος (anche disciplina, gestione), e significa gestione della famiglia].
Se dunque un’impresa è importante per una comunità perché può assicurare una crescita economica producendo ricchezza e offrendo posti di lavoro, la famiglia lo è ancora di più, perché oltre alla crescita economica, assicura un futuro stabile e duraturo alla comunità stessa. Infatti, nella famiglia le persone si abituano a entrare in contatto con altri, in un atteggiamento non necessariamente di conflitto ma di servizio. Tanto migliori, più fraterni e solidali sono i rapporti generati nella famiglia, quanto migliori sono gli effetti benefici sulla comunità. Ciò in quanto la buona riuscita dei servizi offerti dalla famiglia, in termini di migliore educazione, istruzione, formazione e assistenza, genera ottimismo e fiducia nei confronti dei soggetti direttamente beneficiari; questi ultimi, a loro volta, liberano risorse positive a vantaggio di tutta la comunità. È vero che valorizzando esclusivamente le famiglie non si crea sviluppo economico, ma è anche vero che non vi può essere sviluppo economico stabile senza assegnare alla famiglia un ruolo centrale. Pertanto, proprio perché le famiglie svolgono compiti anche di natura economica e produttiva, esse possono concretamente dare il loro contributo per aiutare la società a uscire dalla crisi. Le relazioni che seguiranno questa mia introduzione hanno esattamente lo scopo di far luce su proposte concrete e sulle vie più opportune che il mondo dell’economia, della politica e del diritto saprà immaginare perché venga ridotto il divario tra l’effettivo ruolo svolto dalle famiglie e il suo riconoscimento da parte dei governi e degli Stati contemporanei.
Vorrei concludere con una ultima considerazione che ritengo importante. L’uomo contemporaneo è particolarmente fragile perché è individualista. Da soli si diventa più deboli. Anche economicamente. L’enorme fatica che tante coppie, tante famiglie, incontrano nel condividere per sempre un progetto comune ha, tra le sue motivazioni, anche quella del peccato umano originale: la tentazione di pensarsi autosufficienti e di impostare la vita come l’avventura di un “io” che non sa diventare un “noi”. Essere membro di una famiglia impone un primo passaggio dall’io al noi. Impone una visione di lungo termine e un impegno il cui obiettivo trascende il proprio benessere individuale. C’è un marito a cui pensare, una moglie da considerare, dei figli per cui investire in un progetto. Infatti, amare e voler costruire una famiglia, significa “investire”, con generosità, la propria vita sulla famiglia. Una simile decisione è sicuramente difficile perché si tratta di una scelta che richiede dedizione, cura, sacrifici, in una parola un progetto comune che vada oltre la singola esistenza. Ma tutto questo – ne sono convinto – ha un riscontro e un effetto anche nel mondo dell’economia. L’imprenditore di successo non è mai una donna o un uomo che si pensano soli. La capacità di fare sistema, di entrare in un rapporto con l’altro e con la sua visione del mondo, hanno un indiscusso valore per la realizzazione di successi anche economici. Una buona famiglia, con relazione sane e mature fondate sull’amore più autentico, è anche un piccolo modello di soggetto che sa fare “economia”, che sa cioè mettere a frutto nel modo migliore – cioè più economico – le risorse dei singoli membri per il bene di tutta la società. Scrivono infatti Vera e Stefano Zamagni in Famiglia e Lavoro (Milano 2012): “Un’importante esternalità positiva della famiglia concerne la creazione di capitale umano. È noto che il capitale umano non dipende solo dall’investimento in istruzione e formazione ma anche, e in certi contesti soprattutto, dall’ambiente familiare. Le interazioni tra soggetti consentono la trasmissione reciproca di conoscenze e questo accresce, di per sé, lo stock di capitale umano … Ecco perché laddove la famiglia è solida, coeteris paribus, più elevato è lo stock effettivo di abilità e competenze acquisite dagli individui e quindi più alta è la produttività media del sistema”.
Vorremmo dunque, con questo prezioso Seminario, riprendere e non far cadere l’appello di Benedetto XVI: Le attuali dinamiche economiche internazionali richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l’impresa. Come possiamo declinare, nello scenario contemporaneo, nuovi modi di intendere l’impresa sì da ricomprendere anche la famiglia come un modello economico imprenditoriale?
Concludo: Nel Vangelo di Matteo Gesù racconta una brevissima parabola, di un solo versetto. Quella di un tesoro nascosto in un campo. “Un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (Mt. 13, 44). C’è forse una logica “economica” nell’agire di quest’uomo? Vendere tutto per comprare un unico campo. A noi pare un investimento errato, quanto meno azzardato e rischioso. Ma ciò che conta – è il cuore del messaggio evangelico – è la vera ricchezza che vogliamo raggiungere nella vita. La ricchezza della vita cristiana e della sequela del Signore Gesù. In qualche modo, i cristiani sono sempre stati guidati, dal loro Maestro, a valutare e scoprire con attenzione e lungimiranza ciò che vale veramente nella vita e, in conseguenza, ad investire tutta la loro mente e il loro cuore per raggiungere il vero tesoro. Si direbbe, questo pomeriggio, che la vita cristiana crea e suscita grandi “imprenditori” capaci di investire nell’amore.