LA CHIESA E I DIVORZIATI RISPOSATI – Qualche riflessione

Intervento al convegno “Familles: fragiltés et Espérance” promosso dalla Diocesi di Orléans.

Durante il Sinodo i Padri sinodali si sono confrontati ampiamente su tale questione tra chi poneva l’accento più sulla misericordia e la carità e quanti ribadivano la disciplina attuale. Ambedue le parti non hanno minimamente messo in dubbio la dottrina della indissolubilità, come il Papa stesso ha ribadito. Il problema verteva sulla possibilità o meno di ammettere, in alcuni casi e in determinate condizioni, i divorziati risposati ai sacramenti. La maggioranza – sebbene non qualificata, ossia dei due terzi – ha ritenuto opportuno che si continuasse a riflettere evitando «soluzioni uniche o ispirate alla logica del “tutto o niente”». A che punto è il dibattito?

Credo sia importante procedere per gradi in una materia così complessa. La prima cosa che vorrei far notare è il cambio di atteggiamento avvenuto nella Chiesa, da alcuni decenni a questa parte, nei confronti delle persone credenti divorziate e risposate. Fino a qualche decennio fa, questi fedeli erano considerati «ipso facto infames» (CJC 1917, can. 2356). Non erano soltanto esclusi dal sacramento della Confessione e dell’Eucarestia, ma erano anche indicati pubblicamente come spregevoli: «publice indigni» (can. 855 § 1) senza distinzione. Il Codice di Diritto Canonico del 1983 si esprime con toni più blandi. E successivamente il magistero, a diversi livelli, descrive la loro situazione come di credenti che appartengono alla Chiesa anche se non in piena comunione: «il coniuge risposato si trova… in una condizione di adulterio pubblico e permanente», ma la comunità cristiana deve «astenersi» dal giudicare l’intimo della loro coscienza, dove solo Dio vede e giudica. Non si tratta solamente di un cambio di linguaggio ma, appunto, di atteggiamento pastorale certamente molto più inclusivo rispetto al passato.

È senza dubbio un cambiamento non indifferente. E questo richiede un effettivo e concreto mutamento nel rapporto della comunità cristiana nei confronti di queste persone.

Tale nuovo atteggiamento dovrebbe coinvolgere tutti i membri della comunità cristiana. Purtroppo spesso non accade. Peraltro c’è anche una notevole dose di ignoranza, talora anche presso il clero. Ci sono, ad esempio, sacerdoti che non danno la Comunione neppure a quei fedeli, divorziati, ma che non si sono uniti ad un’altra persona. Con questo atteggiamento contraddicono la prassi della Chiesa e soprattutto pongono sulle spalle di questi fedeli, già gravati dalla fatica di un fallimento, un peso che non debbono affatto sostenere. La Relazione sinodale interviene esplicitamente a tale proposito, per allontanare definitivamente tale ingiustificato e crudele abuso. Un arcivescovo di una grande città europea mi raccontava qualche tempo fa che, recatosi a confessare in un noto santuario mariano della città, riceve la confessione di una donna – docente universitaria, separata dal marito e con due figli, ma non risposata -, che da 27 anni si reca mensilmente in pellegrinaggio al santuario e il sacerdote non le permette di fare la comunione perché separata. Credo ovviamente che quel sacerdote fosse in buona coscienza. Questo mostra l’urgenza e l’ampiezza di lavoro da fare in questo campo.

La questione che noi stiamo affrontando è diversa: si tratta di quei fedeli che dopo aver divorziato si sono risposati. Ebbene ‒ esorta unanimemente il magistero contemporaneo ‒ tutti dobbiamo avere un atteggiamento di accoglienza verso costoro. Tra l’altro dobbiamo tutti essere consapevoli della sofferenza che molti di loro e dei loro familiari stanno vivendo. Non pochi tra loro hanno subito ingiustizie e molti sono poco responsabili di quanto accaduto. Credo, inoltre, che sia opportuno evitare di creare la categoria dei «divorziati risposati», come se ci trovassimo davanti a uno scaffale di casi uguali. In verità, le storie sono l’una diversa dall’altra, ciascuna con le sue tonalità e i suoi dolori. Lo sanno bene gli operatori pastorali che in molte diocesi hanno da tempo posto un’attenzione particolare a queste situazioni. E non sono pochi i frutti che raccolgono, proprio perché si avvicinano con cura ad ogni situazione.

Credo che questo sia il primo e più urgente compito: accogliere con amore queste persone. Non semplicemente per pietismo. Esse fanno parte della Chiesa e quindi vanno amate e sostenute con spirito di fraternità. In tale contesto vorrei spendere almeno una parola – ce ne vorrebbero molte di più – in favore di coloro che, pur essendo stati abbandonati dal coniuge, non hanno intrapreso una nuova unione e restano fedeli alla prima unione che giustamente ritengono indissolubile, al di là dell’abbandono del coniuge. Si tratta di credenti il cui esempio invita tutti a riflettere. È una straordinaria testimonianza di fedeltà alla indissolubilità del matrimonio. È però vero che non tutti riescono a vivere in questo modo. Anzi, il numero dei divorziati risposati è cresciuto in maniera esponenziale. E la Chiesa, che è madre, non può non farsene carico. E il primo modo da mettere in atto è cercare di accoglierli e renderli partecipi della vita della comunità.

Senza dubbio è un grande progresso pastorale essere passati dall’accusa di pubblici peccatori, al dire che anch’essi fanno parte della comunità ecclesiale. Non le pare però che sia importante anche esaminare la questione dell’accesso ai sacramenti? Del resto, già nella disciplina attuale si prevede tale possibilità, se si rispettano alcune condizioni.

In effetti, la disciplina attuale prevede che i divorziati risposati possano accedere alla Confessione e all’Eucarestia ma solo alle seguenti condizioni: se in coscienza essi si impegnano a vivere senza avere rapporti sessuali («come fratello e sorella»), e facendo attenzione a non creare confusione nei fedeli che non sanno della loro scelta interiore; insomma, di nascosto. Credo che sarebbe opportuno, intanto, abolire l’esortazione a vivere «come fratello e sorella». Se infatti si ammette che questi fedeli possono continuare la loro unione di tipo familiare, sebbene con l’impegno all’astinenza dal rapporto strettamente coniugale, si deve lasciare loro almeno una ragionevole possibilità di «tenerezza reciproca» che non sia identica a quella di fratelli o amici. Del resto, i figli – ignari – ne hanno bisogno.

È però di non poco conto il fatto che la Chiesa ritenga che tale unione, sebbene irregolare, possa (anzi, in alcuni casi, debba) permanere per evitare ingiustizie peggiori. E si esortano questi fedeli, proprio perché sono membri della Chiesa, a partecipare attivamente alla sua vita: dalla frequenza alla Santa Messa all’ascolto della Parola di Dio, dalle pratiche di pietà alla vita di carità, e così oltre. Non possono però esercitare alcune responsabilità ecclesiali: il lettore, il ministro straordinario della Comunione, l’ufficio di catechista, il padrino o la madrina, essere membri del Consiglio Pastorale. E questo perché tali ruoli comportano un aspetto di esemplarità che non si accorda con la loro situazione oggettivamente irregolare.

Benedetto XVI, consapevole dei problemi aperti che lascia l’attuale disciplina canonica, ha continuato fino alla fine del suo pontificato a sottolineare che il problema è «spinoso e complesso», che è «doloroso, e che non possediamo la ricetta semplice che lo risolva», «anche perché le situazioni sono sempre diverse». Da cardinale, a chi gli sottoponeva casi complessi, rispondeva che il Codice di Diritto Canonico non può contemplare tutti i casi. Papa Francesco fa capire che non si può dire a queste persone di essere parte della Chiesa e poi trattarle praticamente come scomunicate! Insomma, c’è materia per riflettere e per andare avanti alla ricerca di qualche ipotesi per aiutare questi fedeli a vivere il Battesimo che hanno ricevuto e che li incorpora a Cristo facendoli membri della Chiesa. Essi non sono affatto «scomunicati», ma resi «figli di Dio». Andrebbe approfondita la teologia del Battesimo anche in questo contesto.

Nella «Relatio Synodi» si recepisce l’esortazione dei Padri sinodali a riflettere «sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia». Che ne pensa?

Il testo della «Relazione finale» del Sinodo recepisce il parere della maggioranza (sebbene non dei due terzi) dei vescovi presenti ad approfondire tale questione. E aggiunge: «L’eventuale accesso ai sacramenti dovrebbe essere preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del Vescovo diocesano. Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che “l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate” da diversi “fattori psichici oppure sociali” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735)». Sono parole che esortano con decisione ad andare avanti nella ricerca delle possibili piste di soluzione. Nella vita della Chiesa ci sono sempre stati e sempre ci saranno – passi in avanti che hanno comportato dei cambiamenti nella prassi pastorale, e anche sviluppi della dottrina. La Chiesa è viva e la sua fede vive. È avvenuto così, ad esempio, per la libertà religiosa al tempo del concilio Vaticano II, oppure per la dottrina sociale circa la proprietà privata, come pure nel campo della morale sessuale nel caso del concetto di fine primario e secondario del matrimonio.

San Giovanni XXIII, con grande sapienza pastorale, a chi lo criticava per le sue aperture, diceva: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio». Sono convinto che anche per la questione che stiamo trattando si debba procedere in tale prospettiva, ossia comprendere la dottrina in maniera più profonda: non per assecondare il cedimento a un’attitudine lassista nei confronti dello spirito mondano, ma per illuminare l’azione pastorale in modo coerente con il senso della fede. Il pastore autentico, nella Chiesa, aiuta i fedeli – anche i dispersi – a confidare nel Signore: incoraggiando il riconoscimento delle colpe, ma anche sostenendo il cammino di conversione.

Quali sono i punti fermi della dottrina della Chiesa che anche al Sinodo nessuno ha messo in questione, pur in presenza di proposte innovative che hanno suscitato la resistenza da parte di diversi Padri sinodali?

Il primo punto fermo è l’indissolubilità del matrimonio. Tale dottrina va presa sul serio. Il Nuovo Testamento ne parla cinque volte: 1Cor 7,10-16; Mt 5,31-32; Mt 19,3-12; Mc 10,1-2; Lc 16,18. E san Paolo lo dice chiaramente: «agli sposati, poi, ordino, non io ma il Signore: la moglie non si separi dal marito… e il marito non ripudi la moglie» (1Cor 7,12). Non c’è dubbio che ci troviamo davanti a delle parole tra le più originali del Nuovo Testamento. John P. Meier, il noto studioso del Gesù storico, afferma che tale interdetto evangelico è senza dubbio tra le parole più certe di Gesù. Per un battezzato non ci può essere altro matrimonio valido che quello sacramentale. La Chiesa, quindi, non può celebrare un secondo matrimonio né pensare ad ambigue benedizioni di una nuova unione. Essa ha davanti a sé una serie di doveri che le provengono dal suo Signore. La legislazione canonica prevede, quando l’unione è impossibile che continui, la separazione dei due coniugi, ma non che essi possano risposarsi con altri.

C’è poi un secondo punto, non meno importante, ossia la missione della Chiesa di «salvare le anime». Lo afferma il Codice di Diritto Canonico nel suo ultimo canone, come a dare la chiave di lettura dell’intero impianto disciplinare. Credo sia importante sottolinearlo. La grave responsabilità della salvezza delle anime – non dimentichiamo la grave affermazione di Gesù nel descrive la volontà di Dio: “che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato”(Gv 6,39) – ha portato la Chiesa, nel corso della sua storia, a prendere misure importanti nella prospettiva della salvezza come, ad esempio, quando riammise nella comunione della Chiesa coloro che avevano rinnegato la fede (i cosiddetti lapsi), o anche quando permette l’accesso alla Comunione anche se si è in stato di peccato ma ci si impegna a confessarsi appena possibile, ed anche a battezzare i bambini nella fede della Chiesa.

Tenuti saldi questi due punti, questi due pilastri, come aiutare quei fedeli divorziati risposati che non possono tornare indietro? Quali cammini si possono aprire all’interno della comunità ecclesiale? Come conciliare verità e misericordia, senza creare confusioni e smarrimenti all’interno del «popolo di Dio»?

La Chiesa non può proporre scelte alternative al messaggio evangelico e neppure può stabilire un diritto per casi singoli appellandosi a una generica misericordia che aprirebbe la strada a forme di sregolato soggettivismo. Peraltro, non si deve svilire il valore del sacramento del matrimonio, soprattutto in questo tempo. Si recherebbe un danno alla  stessa società che è già spinta da una cultura ostile alla famiglia a indebolire ogni legame matrimoniale saldo. È però evidente che il testo sinodale suggerisce di fare un passo in avanti rispetto a come la Chiesa fino ad oggi ha tenuto insieme la verità e la misericordia. Non si tratta di negare la tradizione ma, nella fedeltà, di aprirla a ulteriori sviluppi.

L’ho appena accennato, è accaduto altre volte sia nel terreno della teologia che della morale. Una comprensione maggiore del contenuto della dottrina è parte integrante della tradizione stessa. La Tradizione infatti non è un monolite inerte. Semmai è piuttosto come un talento che bisogna far fruttare; un suo pigro possesso rischia di renderci simili a quel servo che, per paura non certo per amore o per zelo, lo nasconde sottoterra impedendone così l’augurabile sviluppo. Come si può pensare di bloccare una vita che deve crescere e allargarsi? Mi pare che nel dibattito sinodale è emersa un chiara linea di marcia: evitate sia la chiusura totale che l’apertura indiscriminata. Non si tratta quindi di individuare una soluzione generale comune per tutti i divorziati risposati, la cui condizione rimane incoerente con il Vangelo. Ma di tener presente che la Chiesa è chiamata dal suo Signore stesso alla salus animarum, e non solo dei fedeli a pieno titolo, ma di tutti e quindi ad accompagnare con pazienza e con amore chi chiede un sostegno sulla via della salvezza. La tradizione spirituale, peraltro, sa bene che Chiesa ed Eucarestia si compenetrano e che appartenenza ecclesiale e comunione eucaristica possono essere separate provvisoriamente ma non per sempre. E si deve tener presente quanto papa Francesco afferma nella Evangelii Gaudium: “L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un pre­mio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni han­no anche conseguenze pastorali che siamo chia­mati a considerare con prudenza e audacia”(47).

Insomma, mi pare che a suo parere la Relazione finale del Sinodo esorti ad una audacia nella ricerca, anche perché se tale situazione permane irrisolta si rischia una certa schizofrenia spirituale e pastorale.

È indubbio che nella disciplina attuale della Chiesa emergono non poche aporie, che reclamano una riflessione più attenta e una pastorale più adeguata. Accenno ad alcune di queste anomalie. È proprio lineare, ad esempio, affermare che la vita cristiana ruota attorno alla centralità della celebrazione dei sacramenti e poi ridimensionarne l’importanza suggerendo che i divorziati possono pur sempre fare la comunione spirituale? E ancora: è possibile «appartenere alla comunità» essendo stabilmente esclusi dall’Eucarestia e dalla Penitenza? E qual è il valore di queste parole di Gesù per i divorziati risposati: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53)? Come comporre la saldezza di queste parole di Gesù con quelle della Chiesa che essi sono comunque parte della comunità cristiana? Non è un’anomalia vietare a questi fedeli (ovviamente a coloro che lo desiderano e che sono preparati) di fare i catechisti se poi sono invitati a educare cristianamente i figli?

Nel testo sinodale si parla esplicitamente di un cammino penitenziale per far accedere i divorziati risposati alla Penitenza e all’Eucarestia, sul modello delle Chiese orientali o delle prime comunità cristiane. In che cosa consiste, concretamente, questo cammino o via penitenziale? Come si attuerebbe nella Chiesa?

È senza dubbio una pista da percorrere e da approfondire. Con un apposito gruppo di teologi, giuristi ed esperti di pastorale, è da alcuni mesi che stiamo studiando tale prospettiva. E presto offriremo a tutti le conclusioni della ricerca. Intanto, si può dire che la ipotizzata «via penitenziale» è da attuarsi, in ogni modo, per casi particolari e dentro un serio percorso di vita cristiana. Quindi non per tutti e in maniera indiscriminata, anche se questo sembra suggerire l’attesa da parte della stampa. E comunque parlerei meglio di una via discretionis, ossia di un percorso di discernimento che comporta anche un cammino penitenziale. Tale via deve avere un carattere «pubblico», ossia accompagnata dal vescovo o da chi da lui incaricato. Questo mi pare un passaggio decisivo, perché va evitato ogni soggettivismo. All’interno di questo quadro si potranno valutare le intenzioni della coppia e le motivazioni che li hanno portato a chiedere di accedere a tale percorso. In ogni caso è indispensabile – come ho accennato sopra – che la coppia divorziata e risposata che si presenta sia avviata alla integrazione nella vita della comunità. E, all’interno di questa nuova vita, verrà accompagnata in un cammino di verità per riconoscere eventuali colpe legate al matrimonio che si è infranto. Il percorso avrà dei tratti penitenziali nel caso emergano colpe personali evidenti. Se si tratta del coniuge innocente, il percorso dovrà prevedere un cammino che porti al perdono e a un’autentica riconciliazione con un passato carico di ferite. Porto solo alcuni brevi cenni. Ma una cosa è chiara: non si tratta di trovare una regoletta che possa dispensarci dalla grave responsabilità di farci carico di situazioni umane e spirituali spesso drammatiche e non sempre facilmente risolvibili.

Quali altre considerazioni si possono fare per evitare che passi nella mente della gente il concetto di una «misericordia a buon mercato», priva di un serio impegno da parte dei singoli fedeli?

Tale itinerario di discernimento deve essere molto serio. È importante, ad esempio, che si comprendano bene i motivi che hanno portato al fallimento del matrimonio e prendere coscienza di aver tradito un comando del Signore. Solo allora è possibile riconciliarsi con questo passato fino al perdono. È indispensabile in tale itinerario l’accompagnamento del vescovo o di chi lui incarica. È ovvio che circa il valore da attribuire alla seconda unione, non è possibile parlare di sacramento perché il sacramento rimane quello che purtroppo è stato infranto, sapendo bene comunque che indissolubilità non significa incorruttibilità, nel senso di infallibilità metafisica del risultato, ovvero di impossibilità fisica del fallimento. La storia del fallimento, tuttavia, può anche aprirsi, di fatto, all’attuazione di un legame di mutuo aiuto e di cura della prole che, per quanto irregolare, esibisce contenuti di valore umano e anche di impegno spirituale che la stessa Familiaris consortio ritiene degni di essere custoditi, per evitare danni peggiori.

In questi ultimi decenni, a livello teologico, non sono mancate diverse ipotesi di soluzione al problema dei divorziati risposati e il loro accesso ai sacramenti. Quale di essa le sembra la più idonea?

C’è una riflessione previa e riguarda il rapporto tra la fede dei coniugi e la celebrazione del matrimonio. La questione è stata posta dall’allora cardinale Ratzinger quando esortò ad affrontarla senza indugi: «Merita un ulteriore approfondimento la questione se cristiani credenti ‒ battezzati, che non hanno mai creduto o non credono più in Dio – possano veramente contrarre un matrimonio sacramento». Con questa affermazione Ratzinger metteva in discussione la prassi che distingueva un matrimonio valido da un matrimonio fruttuoso. La disciplina attuale ritiene che quando due battezzati credono nel valore della fedeltà, indissolubilità, fecondità e intendono fare quello che la Chiesa crede celebrando il matrimonio, celebrano un sacramento valido. La fruttuosità potrà venire nel tempo grazie alla maturazione di una fede e a una consapevolezza esplicita, come di fatto spesso accade. Diventato papa, Ratzinger continuerà a riflettere su tale tema. Poche settimane prima delle dimissioni, parlando agli Uditori rotali, disse: «Se è importante non confondere il problema dell’intenzione (di fare ciò che intende la Chiesa) con quello delle fede personale dei contraenti, non è tuttavia possibile separarli totalmente».

E, citando Giovanni Paolo II, afferma: «Un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto della dimensione soprannaturale nel matrimonio può renderlo nullo solo se ne intacca la validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno sacramentale». Alla luce di questa affermazione papa Benedetto sviluppa una riflessione molto lucida, chiedendosi se senza un’apertura a Dio sia possibile vivere le esigenze dello stesso matrimonio sia naturale, sia sacramentale. E conclude: «Non si deve, quindi, prescindere dalla considerazione che possano darsi dei casi nei quali, proprio per l’assenza di fede, il bene dei coniugi risulti compromesso e cioè escluso dal consenso stesso». Sono parole precise che invitano a percorrere ancora il cammino della ricerca. Ma siamo ancora all’interno della questione circa la validità o meno del sacramento celebrato.

C’è poi l’ipotesi della via discretionis. Tale ipotesi si muove tra due pilastri irrinunciabili: da una parte quello della indissolubilità dell’unico matrimonio sacramentalmente valido in cui la Chiesa si attua e si riconosce pienamente, e dall’altra quello della responsabilità della Chiesa per la salvezza dei suoi figli che il Signore ha acquistato a prezzo del suo sangue. Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa è soprattutto amministratrice e dispensatrice di questa grazia, e non padrona della fede che Dio dona (2 Cor 1, 24). Questi due pilastri debbono restare saldi per sostenere l’arcata del ponte. In tale contesto è possibile individuare le condizioni per porre un atto ecclesiale, eccezionale e non arbitrario, per coloro che, riconosciuta la loro colpa di aver rotto l’unione e di stare in una situazione irregolare, ma che è ormai irreversibile, mostrano tuttavia la sincera volontà di comprendere le ragioni della Chiesa e intendono custodire la loro fede in Gesù Cristo.

Si tratta di un atto ecclesiale che non deve essere né un secondo rito matrimoniale, né una benedizione più o meno equivalente. Tale atto ecclesiale dovrebbe essere una specie di simbolico «Giubileo» annuale della grazia gratis data, che il vescovo concede ‒ non in maniera automatica ‒ a quei fedeli divorziati risposati che lo chiedono per sostenere la penitenza necessaria e incoraggiare l’appartenenza possibile. È ovvio che rimangono i limiti di una loro appartenenza ecclesiale e che in qualche modo la Chiesa deve evidenziare. Ma, in coerenza con il precetto solenne che la Chiesa prescrive per tutti, si potrebbe concedere loro di accostarsi alla Penitenza e alla Comunione sacramentale «almeno una volta all’anno» nella Pasqua, secondo la prassi del Giubileo cristiano.

Il cammino di conversione di questi fedeli che chiedono di progredire nella sequela di Gesù non sarebbe un processo automatico, ma appunto un itinerario di conversione che il vescovo stesso – o chi da lui autorizzato ‒ dovrebbe stabilire magari concedendo tale grazia, ad esempio, anche alla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana dei figli. Questo atto simbolico dovrebbe spingere a riorganizzare l’intera disciplina sacramentale e penitenziale anche in rapporto ad altri peccati «infamanti» (aborto e omicidio, sistematica frode agli operai, pratica abituale di violenza familiare, pratica mafiosa…) che si oppongono ad una degna recezione della Comunione. Questo aspetto della pastorale è del tutto disatteso e mi pare davvero incongrua la durezza in un caso e un vero e proprio lassismo nell’altro.

Vorrei inoltre sottolineare che nella ipotesi proposta è la Chiesa che compie il primo passo verso questi fratelli e sorelle, ricordando le parole di sant’Ambrogio: «Come può chi patisce la fame nella sua anima pregare Dio con vero impegno, se dispera di ottenere il sacro cibo?». La Chiesa, come il Buon Samaritano, prende sulle proprie spalle questi fedeli che fanno fatica a camminare, chiedendo loro di fidarsi e di riflettere sulla loro condizione, affidandosi alla maternità della Chiesa. Quanto può durare il cammino tra questo primo passo e la «locanda» ove ci si può rimettere pienamente in salute, solo il Signore lo conosce. Ma questo ci basti. Non possiamo però lasciare questi fedeli appesi ad una norma che per sua natura resta astratta. E neppure è saggio ribadire una norma e magari lasciar correre soluzioni «nascoste».

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