Catechesi alla Gmg di Roma
Siamo venuti in tanti e da tanti parti del mondo, veniamo da nazioni diverse e da storie diverse, eppure ci sentiamo come un unico popolo, un popolo di giovani. Oggi, alle porte di Roma, mentre siamo verso la conclusione di questo straordinario pellegrinaggio giubilare, il profeta Isaia ci viene incontro con la sua profezia: “Il popolo che camminava nelle tenebre, ha visto una grande luce”. Sono parole che toccano la nostra vita, che colgono certamente queste nostre giornate, ma esse hanno il mondo intero come orizzonte. E’, infatti, al mondo intero, è a tutti i popoli che noi vogliamo cantare con le parole del profeta: “una luce rifulge” in mezzo al buio del mondo, e vogliamo gridare e far vedere a tutti che la nostra gioia è stata moltiplicata e la nostra letizia aumentata; moltiplicata per migliaia e centinaia di migliaia di fratelli e di sorelle radunatisi per vedere questa luce. E’ una luce che ci ha fatti uscire dal chiuso dei piccoli orizzonti di ciascuno di noi. Questa luce ci ha coinvolto e ci ha fatto uscire da noi stessi, dalle nostre città, dai nostri paesi per convergere qui a Roma.
Questa luce che abbiamo davanti ai nostri occhi non è perciò una luce simile alle stelle cadenti del mese di agosto, almeno qui in Europa è così (quest’anno sono cadute l’11 agosto e non il 10). No, non è una luce come quelle stelle cadenti che traversano il cielo buio e poi scompaiono nuovamente nella notte. E questa luce che ci è stata donata non somiglia neanche al luccichio frenetico di quei bagliori effimeri che riempiono tante notti, soprattutto dei giovani, ma rischiano però di nascondere più che manifestare la felicità, che rischiano di coprire più che illuminare e aprire le domande e i desideri che pure sono nei cuori di tanti giovani. Queste luci effimere lasciano non solo noi, ma anche il mondo nel buio. Sì, in tante parti del pianeta c’è ancora buio. E’ il buio dell’abbandono e della solitudine. E’ il buio del peccato; il buio di una vita senza senso. E’ il buio delle numerose guerre che ancora insanguinano il mondo. Nella sola seconda metà del Novecento sono scoppiati più di 50 conflitti, e molti sono latenti. Dobbiamo riconoscere che il futuro non appare roseo. Molti continuano a insistere che si fa strada uno “scontro tra le civiltà” e che appare sempre più difficile l’incontro e il dialogo tra le persone, tra le culture e le diverse fedi. E’ il buio della violenza e dell’ingiustizia che continuano ad abbattersi sui piccoli e sui grandi, in tutti e cinque i continenti. E’ il buio della fame e della povertà che mietono vittime ogni giorno a milioni e milioni senza che nessuno trovi il modo di fermare questa tragica e ormai inesorabile carneficina. Nessuno se ne accorge, nessuno ne parla, ma ogni giorno nel mondo muoiono almeno 40 mila persone per fame, tante quante ne uccise la prima bomba atomica ad Hiroshima. Viviamo in un mondo in cui ogni giorno, e da centinaia e centinaia di giorni, è come se venisse sganciata una bomba atomica. E’ quel buio di cui parla il profeta; è il buio di un mondo uscito da Dio e dal quale, inesorabilmente, anche gli uomini vengono espulsi.
Giunti qui a Roma, pellegrini di pace e cercatori di un futuro nuovo per noi e per il mondo, noi non possiamo non chiederci: quando verrà la pace in Africa? Quando verrà l’accordo per una convivenza pacifica nella terra ove Gesù è nato, la terra dell’Emmanule? E quando l’Estremo Oriente potrà vedere giorni di dialogo e di pace e non più di violenza, come accade in queste settimane nelle Filippine e in Indonesia? E quando i vicini popoli Balcani potranno colmare gli abissi di odio scavati in questi ultimi anni per potersi finalmente riabbracciare? E quando le folle di poveri dell’America Latina potranno rialzarsi dalla loro schiavitù e vivere finalmente con la dignità dei figli di Dio? E quando l’Europa potrà abbattere tutti gli steccati che ancora la dividono al suo interno e spesso oppongono i popoli tra loro o, all’interno della stessa nazione, un gruppo all’altro? Abbiamo traversato la soglia di un nuovo millennio, ma le ombre del secolo passato si sono proiettate sul nuovo secolo. E sono ombre lunghe e pesanti che oscurano l’orizzonte. Il sole della pace e della giustizia sembra farsi largo con fatica nel cielo del 2000. E se è così all’inizio, che ne sarà in seguito?
Oggi, più che mai, questo nostro mondo ha bisogno di ascoltare la profezia di Isaia. Ne hanno bisogno l’Oriente e l’Occidente; ne hanno bisogno il Nord ricco del mondo e il Sud povero della terra. La profezia che questa mattina ci e stata annunciata, e che in questi giorni vediamo con maggiore chiarezza, deve essere gridata sui tetti delle nostre nazioni e dei nostri paesi. Questa profezia non può restare prigioniera sotto il moggio dei nostri provincialismi, delle nostre chiusure, della nostra pigrizia e della nostra avarizia. Il mondo intero ha bisogno di sentire che “su coloro che abitano in una terra tenebrosa, una luce rifulge”; e c’è bisogno che si dica forte che “un bambino è nato per noi” e per tutti i popoli. A quei pastori spaventati nella notte, l’angelo disse: “Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo”. Non era una gioia riservata a un gruppo; era una gioia per il mondo intero. Ed in effetti è il mondo intero che ha bisogno di questa buona notizia. Anche perché sono davvero poche, troppo poche, le notizie buone che circolano tra gli uomini. Eppure, come sarebbe bello se un fremito nuovo percorresse la terra e si propagasse di casa in casa! Come sarebbe bello se si spargesse la notizia che i condannati a morte sono graziati, che le minacce di violenza sono esaurite, che le armi sono lasciate cadere, che ormai ci si guarda senza odio, che chi ha di più dona qualcosa a chi non ha nulla, che gli uomini e le donne muovono i loro cuori a compassione! E’ un sogno? Certo che lo è. Ma forse il mondo, soprattutto oggi, proprio in questo inizio di millennio, ha bisogno di sognare. E forse anche noi, dico noi cristiani di ogni terra, abbiamo bisogno di sognare, e di sognare alla grande. Giovanni Paolo II, con questo stesso incontro che vede raccolti centinaia e centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo, ha avuto un grande sogno. Ricordo quando la prima volta, eravamo un piccolo gruppo, ci manifestò questo desiderio di voler raccogliere i giovani da tutto il mondo. Rimanemmo stupiti e un po’ sconcertati. Ma egli sognava alla grande; non bastava più fare semplicemente qualcosa; non bastava più mettere qualche aggiunta. E nacquero queste Giornate Mondiali, divenute ormai come un fiume in piena che si è ingrandito sempre più e che tocca sponde sempre più vaste.
Oggi, questo fiume è giunto a Roma. Tutti siamo stati come coinvolti da questa corrente. Siamo in certo modo tornati alle sorgenti, anzi alla sorgente della vita. E’ l’anno del Grande Giubileo, l’anno d’inizio di un nuovo millennio. Siamo venuti qui per sognare assieme e per ripartire avendo nel cuore e sulle labbra la buona notizia che il mondo attende. Sì, noi siamo qui per vedere la luce di cui ha parlato il profeta Isaia. Siamo qui per vedere apparire questa luce sul mondo all’inizio del nuovo millennio. Vorrei dire, non solo per vedere, ma per essere partecipi dell’aurora di un nuovo tempo per noi e per il mondo. Sono passati duemila anni da quando la profezia si è realizzata, da quando cioè “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), come scrive Giovanni nel prologo del suo Vangelo. Sono passati duemila anni da quando quei pastori alzando gli occhi da se stessi videro gli angeli e ascoltarono la loro parola: “Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”(Lc 1, 11). A noi è data la grazia di poter ascoltare l’annuncio di quella notte e di rivivere il miracolo di quella nascita proprio mentre inizia il nuovo millennio.
Questo nuovo tempo, cari fratelli e care sorelle, o inizia sotto la luce di Cristo, oppure sarà condannato a restare nelle tenebre dell’inimicizia e del peccato, preda di abbagli di ogni tipo. Pensate all’abbaglio di milioni e milioni di persone per i “totalitarismi” nel corso del Novecento. Anche intelligenze acute e scrittori noti hanno potuto simpatizzare con i vari totalitarismi che hanno distrutto la vita di un numero enorme di persone e talora di intere collettività. E oggi assistiamo in Europa a giovani che si lasciano abbagliare dal mito della razza, come se le tragedie accadute non bastassero! Gesù non è un abbaglio, non è un’allucinazione. Egli, anzi, ci libera da ogni abbaglio e allucinazione. E lo testimoniano i milioni di martiri del Novecento. Si tratta di vescovi, di preti, di religiosi e di religiose, di semplici fedeli, di uomini e di donne che, unici, in nome di Gesù e del suo amore hanno resistito al tiranno sino all’effusione del sangue. Sì, anche nel buio più terribile dei campi di concentramento, uomini e donne cristiani, hanno testimoniato che il Signore era in mezzo a loro e nel loro cuore, e la sua luce splendeva nelle tenebre dei campi di concentramento. Dio, attraverso di loro, non era più lontano dagli uomini, non abitava più al di là dei cieli. Dio, attraverso di loro, era ancora l’Emmanuele, il Dio con noi. Sì, anche Dio stava in baracca, come a Betlemme, e nelle camere a gas come sul calvario.
Ma cosa videro quei pastori? “Troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. La luce non cerchiamola nello splendore dei palazzi del potere e neppure nei cuori degli arroganti e dei violenti. Gesù non è venuto come un forte o un potente, ma come un bambino, come un piccolo, come un uomo mite ed umile di cuore. Gesù è venuto come il misericordioso, il pacifico, il libero, l’amico. Isaia aveva cercato di preparare il cuore e la mente del popolo eletto: “Un bambino è nato per voi”. Ed erano allora – siamo a circa settecento anni prima della nascita di Gesù – momenti difficili per Israele. La guerra devastava il suo territorio e la stessa Gerusalemme stava per essere conquistata dai nemici: una umiliazione senza pari. Tutti, scrive il profeta, erano agitati e i cuori erano sconvolti come i rami del bosco agitati dal vento(Is 7, 2). Il re Acaz chiedeva un intervento di Dio perché salvasse il popolo dalla sconfitta, e invocò un segno. Si aspetta ovviamente un segno potente, un intervento che liberasse Israele dall’oppressione. Il profeta, dopo una lunga insistenza del re, intervenne con la sua profezia e annunciò un liberatore. Ma non era secondo le attese del re e del popolo. Il liberatore era un bambino; la più debole tra le creature. Di fronte alla guerra e alle sue ragioni violente, il Signore rispondeva con la debolezza di un bambino. Egli avrebbe instaurato un nuovo regno ove ci sarebbero state pace e concordia: “la vacca e l’orso, profetizza Isaia, pascoleranno insieme, il leone si ciberà di paglia, come il bue; il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, e il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi” (Is. 11, 7-8). Una nuova armonia ci sarebbe stata sulla terra.
“Sulle spalle di questo bambino – annuncia Isaia – è il segno della sovranità”. La debolezza non significava assenza di forza. Ma qual è la sovranità di quel bambino? E’ la sovranità dell’amore. Sì, solo l’amore è la forza vera che sconfigge il male alla radice. Tutto il resto non esercita una vera sovranità sui cuori, perché divide e distrugge. Ovviamente non si parla dell’amore per se stessi, quello che i santi padri chiamano “filuatia”. L’amore per se stessi, infatti, è alla radice di ogni male, perché alza sino all’orlo la soglia dell’egoismo, dell’indifferenza e inevitabilmente sfocia nella cattiveria. L’amore del Signore è invece non fa ripiegare su se stessi, l’amore del Signore allarga il cuore, lo rende misericordioso, pronto a vedere gli altri prima di se stessi. Ricordate quando i discepoli discutevano tra loro su chi fosse il più grande? Gesù disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano il potere su di esse. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”(Mc 10, 42-44). E per lui non erano parole vuote, non erano una bella esortazione morale, oltretutto rivolta ad altri come spesso facciamo noi. Gesù, queste parole, le ha vissute per primo: “Il figlio dell’uomo – aggiunge – non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti”.
Quel bambino può sembrare ai nostri occhi mondani troppo piccolo perché rappresenti qualcosa di serio per un mondo complicato come il nostro. E spesso così accade. Già nel prologo di Giovanni si legge: “La luce splende tra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (1, 5). E può accadere che anche noi non lo accogliamo. Non lo accogliamo perché non lo riconosciamo. Chi pensa che in quel povero c’è Gesù? Che in quel carcerato c’è Gesù? Che in quella situazione c’è Gesù? Anzi ci sembra impossibile che sia proprio lì. E’ quanto descrive Gesù stesso. Nel Vangelo di Matteo leggiamo che molti chiederanno al Signore: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato, o assetato, o forestiero, o nudo, o malato, o in carcere…?” Ma Gesù era quell’affamato, quell’assetato, quel forestiero, quell’uomo nudo, quella donna malata, quel carcerato. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Mt 25,31). Ma come può un uomo nudo, un uomo debole, un carcerato essere il Signore? Come si può riconoscere in lui il Salvatore?
L’apostolo Paolo insiste: in quel bambino “è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini”. In quel bambino è nascosta la salvezza per tutti, per l’uomo insoddisfatto e per la donna disperata, per chi è solo e per chi soffre nell’angoscia, per chi chiede amore e per chi invoca perdono, per chi è nella disperazione e per chi cerca speranza. Con l’Emmanuele, è venuto nel mondo un cuore. Con l’Emmanuele il mondo ha un centro, il mondo ha un cuore: Gesù. Non c’è altra salvezza fuori da lui, né per me né per il mondo. E noi, care sorelle e cari fratelli, che veniamo da tante parti del mondo, ci ritroviamo assieme per entrare nel nuovo secolo attraverso questa “porta santa” che è Gesù. E’ un’ora importante questa. E’ l’ora della scelta. Una scelta generosa, compiuta appunto in una gioia non calcolatrice, una scelta che non conosce indugi. Niente, in questi giorni, giustifica la mancanza di una scelta per Gesù, la mancanza di una sequela per il Signore che ci è venuto accanto, al punto da farsi uno di noi. Questa gioia deve anzi crescere. Stando accanto a Gesù, infatti, ci rinnoveremo e cresceremo nell’amore. E l’amore va comunicato. La gioia di questa compagnia non è solo qualcosa di intimo e di personale, essa riguarda anche gli altri. Non possiamo tenercela gelosamente per noi. Anzi questa gioia appassisce se non si comunica. E se viene comunicata cresce. Sì, c’è una grande gioia nel comunicare il Vangelo. Scopriremo quanti attendono questo annuncio, magari anche senza saperlo. Gesù, quel bambino ch’è nato per noi è la salvezza di tutti. La sua piccolezza può smuovere le montagne. Grida il profeta: “grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine”. E ci sarà una grande pace: a partire da lui, senza prepotenza e senza violenza, la pace e la giustizia sono più forti perché non sono parole vuote. Esse hanno un volto, il volto di Gesù uomo pacifico e giusto.
Dobbiamo perciò tornare tutti, in certo modo, a Betlemme per vedere quel bambino ch’è nato. Mi viene davanti agli occhi l’immagine di Giovanni Paolo II inginocchiato nella grotta di Betlemme davanti alla mangiatoia, lì dove Gesù è nato. Imitando i primi pastori, anche Lui, pastore della Chiesa di Cristo, si è inginocchiato per venerare quel bambino. E noi ci uniamo spiritualmente a lui, e assieme a lui parleremo di quel bambino al mondo intero. Sta scritto che i pastori: “Dopo averlo visto riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano”(Lc 2, 17). Lo stupore scioglie i cuori duri degli adulti, dei sazi e dei prepotenti. Anche noi dobbiamo stupire il mondo parlando di quell’uomo mite ed umile di cuore. Non abbiate paura! Non c’è bisogno di mascherarci da adulti potenti o da grandi di questo mondo per parlare di Gesù. Egli ha scelto i piccoli e deboli per confondere i forti e i sapienti. Anzi, l’Emmanuele Gesù viene in mezzo agli uomini con l’ingenuità di un bambino, accompagnato da uomini e donne semplici e miti, ingenui per il mondo, ma forti anzi fortissimi nell’amore. Anche tu puoi essere tra questi! Ricordati perciò del comando che fu rivolto a Giuseppe: “Prendi con te il bambino e sua madre”. Sì, prendi con te il Bambino; prendi con te il Vangelo; prendi con te sua madre, Maria; prendi con te la Chiesa; prendi con te i poveri e i deboli; prendi con te tutti coloro che non hanno porto tra gli uomini come non lo ebbe, appunto, quel bambino. Care sorelle e fratelli prendiamo con noi quel bambino, adottiamolo, facciamolo compagno della nostra vita. Da questo bambino inizia un regno di pace e di giustizia; da questo bambino inizia una comunione di cuori, una solidarietà larga, che va al di là di qualsiasi muro, che scavalca tutte le frontiere, quelle delle città, quelle delle nazioni, quelle degli stessi continenti. Ci sarà una fratellanza universale che solo il principe della pace, il bambino di Betlemme, il figlio di Maria, il crocifisso può suscitare e reggere. E’ il sogno che il Vangelo ci dona, il sogno di una pace grande, vasta e profonda. Con questo sogno vogliamo entrare nel nuovo millennio. Ciascuno di noi, tutti assieme, dobbiamo partecipare ad un grande movimento di cuori che, partendo da questo Giubileo, si estenda in ogni parte e illumini gli anni che verranno.