Poliarchia e bene comune
1. Non credo sia mio compito specifico presentare il volume. Mentre mi pare opportuno, anche nella mia vesta di vescovo, offrirne la chiave di lettura. Perché e da cosa è nato questo volume? E’ nato perché la fede ha spinto dei credenti a riflettere su se stessa nel suo impatto con la storia. Alcuni credenti hanno sentito l’obbligo, derivante dalla stessa fede, di impegnarsi in un’opera di discernimento, ossia di ascolto della realtà della nostra Regione all’interno della visione cristiana. E’ insomma un tentativo di lettura dei “segni dei tempi”. Senza l’orizzonte della fede il discernimento sarebbe privo di punti di orientamento: senza il confronto con la realtà storica la fede resterebbe astratta, sul piano dei principi teorici.
2. L’Eucarestia, culmine della fede, è il motore che spinge il credente a entrare nella storia. Benedetto XVI parla della “mistica” sociale del sacramento nella Deus Caritas Est (n.14): “L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani. Diventiamo « un solo corpo », fusi insieme in un’unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé.” Di qui scaturisce la prospettiva sull’Eucaristia e la città.
3. L’Eucaristia spinge la Chiesa ad entrare nella Città. Sarebbe un tradimento del sacramento restare dentro le mura della Chiesa o anche uscire solo sul sagrato. L’Eucarestia spinge ad essere lievito della pasta, luce dell’intero ambiente, sale per l’intero cibo. Insomma, mette in relazione strettissima la Chiesa e la Città come intime l’una all’altra. La Chiesa, sebbene distinte, non sono estranee. La Lumen Gentium afferma che la Chiesa è “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (n.1). Come dico nel mio saggio introduttivo al libro, la Chiesa e la Città “non sono perfette in se stesse, non sono chiuse l’una all’altra e neppure sono impermeabili tra loro. La tentazione della esclusività della Città è stato il tratto distintivo di tutti i progetti ideologici che si sono trasformati in totalitarismi e che hanno riempito di sangue il secolo scorso. Ma anche la perfezione della Chiesa è tale solo in termini escatologici, essendo essa su questa terra semper reformanda. Per questo la Chiesa non può pretendere la guida. Chiesa e Città sono però in intima relazione, quasi “interne” l’una all’altra. Questo tuttavia non vuol dire che sia facile interagire tra loro o che il rapporto sia dato una volta per tutte e sempre nello stesso modo. Ogni generazione cristiana, a seconda della situazione storica, è chiamata a riscoprire la relazione con la città nella chiarezza della differenza e nella forza del legame. Si tratta appunto di un cammino di discernimento che non si riduce alla semplice applicazione delle verità della fede alla concreta realtà storica, bensì all’umile e paziente ascolto della Parola di Dio – in consonanza con la Tradizione della Chiesa – che si rivela anche attraverso i segni dei tempi presenti nella vicenda umana. La Chiesa pertanto non si limita unicamente a proclamare principi, accetta piuttosto la sfida della costruzione storica assieme agli uomini di buona volontà perché la città sia più giusta e più umana.”
4. Il punto focale che fa da snodo nel volume quando si parla di Città è quello della pluralità dei poteri sociali, della loro relazione ma soprattutto della loro autonomia. E’ il tema della poliarchia, un modo di essere e di vedere la realtà sociale nel quale a nessuna sfera sociale (economia, politica, religione, etc.) è riservato un primato. La “divisione sociale dei poteri” relativizza infatti ogni potere. Tutti i poteri sociali, ciascuno secondo il suo ordine, servono al bene comune. Il bene comune non è monopolio di uno tra questi poteri. E’ invece il frutto della loro continua relazione. L’insegnamento sociale della Chiesa – anche esso legato alla dinamica storica e all’esercizio del discernimento – ha individuato una grande sintonia con questo punto di vista che, del resto, ha radici nella storia del pensiero cristiano. Poliarchia significa dunque, a maggior ragione, piena cittadinanza nello spazio pubblico per tutte le “visioni del mondo”, dunque anche per la comunità cristiana. Tutte le realtà sociali e le istituzioni vengono quindi “laicizzate”, ossia relativizzate. Tutte sono chiamate a scendere in campo, in tutto il campo. Per questo non solo non c’è l’accusa di invadere il campo, semmai c’è la chiamata a percorrerlo tutto. Il campo dello spazio pubblico non è riservato a nessuna istituzione in particolare. Al contrario, solo un campo affollato di protagonisti capaci di dare spessore alla riflessione pubblica è in grado di ospitare una società che cresce, più giusta, più aperta. Una società che ha cura del bene comune. Nel pensiero cristiano il bene comune consiste “nell’insieme delle condizioni sociali, grazie alle quali gli uomini possono perseguire il loro perfezionamento più riccamente o con maggiore facilità, cioè soprattutto nella salvaguardia dei diritti della persona umana e nell’adempimento dei rispettivi doveri” come dice il Concilio (Dignitatis Humanae n.6).
5. E qui si apre tutta la fatica del discernimento. Non si tratta semplicemente di applicare dei “principi” cristiani esistenti nell’iperuranio e poi di applicarli alla “realtà”. E’ fallace pensare che ci sia prima una “dottrina sociale della Chiesa” e poi “la realtà sociale” alla quale applicarla. Il discernimento consiste nella fatica di interpretare la situazione, nella convinzione che la verità ha una forma più complessa di quanto spesso crediamo e che mette alla prova sia l’intelletto che la volontà. Il grande teologo von Balthasar, in Abbattere i bastioni, scriveva che la verità è ellittica, esige di essere guardata da più punti di vista e di assumere dunque la fatica di spostarsi, di camminare – come Gesù camminava – dall’uno all’altro di questi punti. Potremmo dire che la verità è temporalizzata, è una verità nel tempo. Il discernimento produce dunque giudizi, non principi. Giudizi fallibili, storicamente condizionati, aperti al confronto critico. Per questo il cammino di discernimento delle otto diocesi dell’Umbria rappresentato da questo libro (ma fatto di molto altro: gli incontri della Consulta regionale della CEU; i seminari di approfondimento con le espressioni della realtà regionale; il lavoro del gruppo degli esperti che hanno accompagnato la Consulta; l’incontro regionale dell’Azione cattolica; il grande convegno di studi del 19 dicembre 2009 ad Assisi; tutti appuntamenti che si sono sviluppati parallelamente al cammino preparatorio della settimana sociale dei cattolici italiani di Reggio Calabria dello scorso ottobre, cammino che ha non poco beneficiato – lo possiamo dire anche con un po’ di legittimo orgoglio – del nostro lavoro regionale) esprime dei giudizi, anche sulla vitalità delle stesse Chiese. Ne riprendo alcuni con brevi spunti.
6. Per l’Umbria è urgente riconsiderare attentamente e lucidamente le criticità che minacciano la sostenibilità dei suoi livelli di benessere e la qualità della vita sociale nel prossimo futuro. In altri termini occorre mettere sotto osservazione la sostenibilità del modello Umbria: poca innovazione, poco dinamismo ma buona qualità sociale. Questa combinazione si regge su presupposti in via di esaurimento. Il sovrapporsi della crisi economica alla riforma del cosiddetto federalismo fiscale e alle debolezze strutturali preesistenti impone l’adozione di nuove visioni dello sviluppo regionale da parte di tutti. Il rischio è il declino. Alcuni impegni sono prioritari: un più vigoroso e creativo impegno degli imprenditori, che faccia crescere iniziative innovative nell’industria e nei servizi, anche al fine di valorizzare il capitale umano disponibile; un riordino dei rapporti tra i livelli di governo regionale e locale, che riqualifichi l’intervento pubblico, ancora troppo invasivo nonostante le promesse della “regione leggera”, una buona idea che è riuscita però a fare poca strada; politiche pubbliche in campo economico capaci di definire delle priorità, capaci cioè di indirizzare le risorse dove più ampie sono le prospettive di sviluppo, sottratte alla logica asfissiante della mera distribuzione e finalmente sottoposte ad attenta valutazione; assetti delle istituzioni politiche regionali capaci di produrre decisioni, equilibrati ma non arrendevoli nei confronti dei tanti poteri di veto, ordinati secondo una logica bipolare che, nel contesto storico, appare comunque come la più efficace per garantire trasparenza e responsabilità. Come si vede un elenco di questioni, un elenco dei “problemi più urgenti” – volendo riprendere l’espressione della parte II della Gaudium et spes, quella in cui i padri conciliari affrontarono i nodi della realtà contemporanea, secondo lo stile del discernimento al quale anche noi ci siamo ispirati. Un elenco di problemi che diventa un’ agenda per l’Umbria, analogamente a quanto hanno fatto la Chiesa italiana e il suo laicato nella settimana di Reggio Calabria. Un’agenda di speranza per il futuro dell’Umbria, potremmo dire oggi.
7. Anche le diocesi umbre debbono fermarsi a riflettere su se stesse, per fare i conti con la loro storia recente, per indagare e interrogarsi ad esempio sui rapporti avuti con la dimensione pubblica e politica. Il libro tenta una prima analisi in questa direzione e utilizza la categoria del “devozionismo protetto” per descrivere questi rapporti. Ci troviamo di fronte cioè ad un cattolicesimo un po’ introverso, timido nei confronti di quel primato della politica ancora così diffuso nel contesto regionale umbro, ricco di presenze individuali ma debole nel suo tessuto associativo, forte nella sua tensione alla solidarietà ma povero di un’elaborazione culturale in grado di orientare la discussione pubblica. Naturalmente molte sono le eccezioni ma sono eccezioni che restano tali: questa è la tesi avanzata nel libro. Va da sé che quella politica non è l’unica proiezione pubblica del cattolicesimo. Per ricostruire un quadro più completo occorrerebbe allargare l’analisi al mondo della scuola e dell’università, a quello economico (impresa, finanza, sindacato) ed ad altri ancora. Cioè andrebbe progressivamente indagato l’intero spettro dei rapporti tra le diverse sfere sociali inclusa quella religiosa. Si potrebbe cominciare col testare a più largo raggio la tesi avanzata nel libro, ad esempio attraverso la analisi delle scelte operate da un cospicuo numero di cattolici protagonisti nel mondo delle imprese e della finanza locale, nel mondo della cultura e dell’Università. E quindi con il chiedersi se siano state diverse ed innovatrici, e in che misura, le esperienze delle fondazioni bancarie, delle università o delle associazioni imprenditoriali quando sono state guidate da cattolici. La questione riguarda dunque il laicato cattolico ma non solo. Come abbiamo visto è infatti essenzialmente ecclesiale perché tocca il rapporto tra la Chiesa e la Città. Certo al laicato spetta il compito di elaborare risposte, comportamenti, istituzioni che superino la separazione tra “dentro” e “fuori”, tra Chiesa e Città, tra una dimensione religiosa relegata alla sfera privata e vissuta con modalità individualistiche e una dimensione pubblica sovente monopolizzata dalle istituzioni politiche.
8. Coloro che hanno contribuito a costruire le “narrazioni” pubbliche della storia regionale vanno orgogliosi del contributo dell’Umbria alla elaborazione di una cultura e di una prassi regionalistica, non solo sul piano interno dei rapporti tra le organizzazioni politiche regionali ma anche su quello nazionale. L’Umbria ha dato ampio spazio alla riflessione sul regionalismo come movimento capace di riformulare le modalità di funzionamento delle istituzioni politiche e allargare le potenzialità di partecipazione e di crescita economica. Questo lungo cammino, che inizia ben prima della costituzione della Regione come soggetto di governo, si è compiuto attraversando diverse stagioni, da quella della programmazione a quella della concertazione, tutte in qualche modo egemonizzate da un’idea gerarchica, verticale, unitaria del modello sociale, l’idea del primato della politica. La fase della “regione leggera” ha segnato un punto di svolta anche se si è trattato di una svolta incompiuta.
9. Non è venuto il momento di pensare una nuova fase della storia regionale, una fase nella quale la crescita delle opportunità e il futuro della regione vengano presi concretamente in mano da tutte le sue istituzioni sociali, senza primati, in un quadro di collaborazione e di autonomia, allargando gli orizzonti (dei mercati, delle relazioni culturali, del dialogo religioso) e riconoscendo tutti insieme che una stagione si è chiusa e che occorre guardare oltre? Guardare oltre il regionalismo politico e verso un policentrismo regionale, lontano dalle trappole del localismo, agganciato alle aree “forti” dell’Italia centrale, aperto alla storia nazionale ed europea, guidato da un’idea poliarchica di società. Solo così l’Umbria potrà tornare ad essere un laboratorio, uno spazio aperto di dialogo e di ricerca, per la Chiesa e per la Città. Il volume, in sintesi, si presenta con l’umiltà di chi vuole proporre quella che ho definito un’agenda, e assieme con la passione di chi crede che abbiamo le forze per intraprendere una nuova stagione. Per me cristiano è un’esigenza che parte dall’interno stesso della fede. Diceva l’Apostolo Paolo: “Perché ho creduto perciò ho parlato”(2Cor 8,13).