Bene comune, poliarchia e città
Vi ringrazio innanzi tutto per questo invito che interpreto come la richiesta di mettere a vostra disposizione la mia esperienza di Vescovo e le mie riflessioni personali sul tema di questo nostro incontro. Vi propongo un breve itinerario, non molto di più di un insieme di suggestioni, sulle relazioni tra bene comune, poliarchia e città. Vedremo come questo itinerario incrocia alcuni tra i punti essenziali del pensiero di Benedetto XVI racchiuso nella Caritas in Veritate.
Non è difficile convenire sul fatto che molto spesso, nel dibattito pubblico ma anche nelle elaborazioni degli intellettuali, si usa la formula “bene comune” con grande facilità, come se si potesse darne per scontato il significato e presupporre una larga convergenza intorno ad esso.
La domanda che vorrei dunque affrontare con voi è proprio questa: quando parliamo di bene comune abbiamo in mente qualcosa di precisamente identificabile, una qualche elaborazione concettuale discriminante, con una sua stabilità definitoria, con una sua tradizione alle spalle? Certamente se rispondiamo pensando alla storia della filosofia o a quella del pensiero politico la risposta è allo stesso tempo facile e lunga. Facile perché sono molti gli autori che ricorrono al concetto di bene comune, lunga perché occorrerebbe inoltrarsi nei diversi filoni di pensiero per confezionarla tenendo conto di tutte le sfumature e dei diversi passaggi cruciali. Parlare di bene comune nella filosofia politica classica è, per esempio, ben diverso dal farlo nel quadro della moderna filosofia politica contrattualista o delle filosofie comunitariste contemporanee.
Se però torniamo al dibattito pubblico ci accorgiamo che il suo uso sta diventando tutt’altro che discriminante, tutt’altro che intriso di uno stabile significato concettuale. Usiamo la dizione “bene comune” come a voler dire che non tutte le azioni individuali e collettive trovano giustificazione nel perseguimento di un vantaggio meramente individuale; oppure la usiamo quando ci accorgiamo che il conflitto e la competizione stanno perdendo di vista le loro regole del gioco e stanno producendo danni collettivi e non vantaggi individuali e vantaggi collettivi. In altri termini usiamo bene comune per indicare un obiettivo “superiore” che finisce con l’essere identificato come proprio dell’ordine politico.
Ora, chiediamoci: tutto questo ci mostra una permanente spendibilità dell’idea di bene comune nel dibattito pubblico o piuttosto ci conferma nella sensazione che di bene comune si parla senza sapergli o volergli attribuire un significato preciso? Io penso che l’idea di bene comune sia ancora spendibile nel dibattito pubblico e abbia ancora una sua forte capacità discriminatoria, abbia cioè una sua struttura interna in grado di orientare comportamenti e istituzioni. Ma, e questo è il punto, dobbiamo guardare al bene comune con due avvertenze fondamentali, una riguardo alla sua storicità e l’altra riguardo al suo pluralismo interno.
Partirei da una definizione di bene comune che il Concilio Vaticano II – celebreremo l’anno prossimo il cinquantesimo della indizione – pone a fondamento di uno dei suoi testi più importanti e più innovativi, anche se spesso è trascurato e poco conosciuto. Mi riferisco alla Dignitatis Humanae, la dichiarazione sulla libertà religiosa che esprime forse uno dei punti più alti di quel movimento di aggiornamento e riscoperta della tradizione della Chiesa cattolica a cui si è ispirato l’intero Concilio. Ebbene il n.6 di questo documento definisce il bene comune come l’insieme delle “condizioni sociali, grazie alle quali gli uomini possono perseguire il loro perfezionamento più riccamente o con maggiore facilità”. Il bene comune non è dunque qualcosa di definito in via sostanziale e sottratto al cambiamento della storia. L’idea di bene comune vive infatti quasi lo stesso destino dell’idea di diritto naturale. Tanto irrinunciabile dal punto di vista funzionale, come limite invalicabile del potere politico, quanto sostanzialmente ancorata ai diversi passaggi storici. Questa storicizzazione del diritto naturale, sulla quale riflette anche Joseph Ratzinger nel suo famoso dialogo del 2004 con Habermas, non corrisponde ovviamente ad una sua dissoluzione storicistica. Allo stesso modo la storicizzazione del bene comune non comporta una sua svalutazione contestualizzante. Al contrario fa emergere un suo dinamismo interno, quel dinamismo che portava Pietro Scoppola a prendere le distanze da un “concetto di bene comune in sé definito e non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società”. In questo dinamismo, il bene comune non perde l’ancoraggio fondamentale ai diritti fondamentali della persona che costituiscono l’orizzonte di questo continuo movimento.
A questa dimensione si connette la seconda avvertenza, quella che chiamavo del pluralismo interno. Il bene comune non è infatti il fine che identifica una sola specifica funzione della società, quella politica. Non la sola politica è chiamata a perseguire il bene comune e dunque non solo la politica è chiamata a garantire le condizioni di cui parla Dignitatis Humanae n.6. Il bene comune è fine di tutta la società, di tutte le sfere sociali che la compongono. D’altra parte già chiaramente in Rosmini la società civile e non la politica è istituita al fine di assicurare il conseguimento del bene comune inteso come “bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale e che sono soggetti di diritti”. E’ ancora l’esperienza del Concilio Vaticano II a suggerirci la giusta prospettiva. John Courtney Murray, il teologo gesuita che forse più di tutti ha influenzato il dibattito dei padri conciliari su questi temi, parlava di ordine pubblico come fine proprio della politica, preoccupandosi di chiarire tuttavia come l’ordine pubblico non sia un concetto restringibile alla sicurezza e all’assenza di minacce alla libertà, alla vita e alla proprietà ma riguardi altri ambiti, come la garanzia di un tessuto morale essenziale al funzionamento delle nostre società e la tutela dei livelli essenziali di benessere. Il perseguimento del bene comune è invece proprio della società nel suo insieme, di tutte le sue componenti e di tutte le sue istituzioni, diremmo noi di tutte le sfere sociali, della politica, dell’economia, della scienza, della religione. Dice Benedetto XVI nella Caritas in Veritate (n. 7) che “impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città.”
Se il bene comune è dunque una dimensione propria dell’intera società, è alle caratteristiche della società stessa che dobbiamo guardare per indagare quale tra esse può meglio condurci alla sua cura. E la prima di queste caratteristiche ha a che fare con la sua intima pluralità. La società è un insieme di sfere sociali, tra loro connesse ma anche distinte, nel quale si persegue la cura di più beni, economici, culturali, religiosi, politici. Ora, ciascuna di queste sfere incide, direi di fatto ma anche di diritto, sulla provvista di bene comune. Bene comune e pluralismo delle sfere sociali finiscono dunque per il richiamarsi reciprocamente. In una concezione dinamica e aggiornata di bene comune il pluralismo sociale è una componente essenziale. Società non pluraliste non sono in grado di assicurare il perseguimento del bene comune.
Ma dobbiamo fare ancora un altro passo e chiederci: c’è una gerarchia tra queste sfere sociali? In altre parole, il pluralismo può convivere con una sorta di subordinazione di una sfera sociale all’altra o meglio con il prevalere di una sfera su tutte le altre? Questa domanda è particolarmente cruciale in un momento nel quale molto si discute, ad esempio, di primato della politica come ricetta contro le difficoltà indotte dalla crisi finanziaria internazionale e, allo stesso tempo, come difesa di uno spazio sociale che si denuncia colonizzato da altre sfere, in questo caso quella economica. E’ qui che ci viene in soccorso un altro concetto sul quale molto sono tornato in questi ultimi tempi e che mediante la Caritas in Veritate (n. 57) è entrato a far parte anche del magistero di Benedetto XVI. Sto parlando dell’idea di poliarchia sulla quale vorrei ora soffermarmi.
Per un verso si potrebbe ritenere poliarchia un concetto assai simile a quello di pluralismo. In verità, la poliarchia è qualche cosa di più del pluralismo, suppone il pluralismo ma vi aggiunge un elemento ulteriore. E l’elemento ulteriore è dato dalla impraticabilità dell’assetto gerarchico dell’ordine sociale, di ogni assetto cioè nel quale la società è ricondotta ad unità dal prevalere di una sfera sociale, in particolare dal prevalere delle politica come garanzia di unità e di coesione. Ora il concetto di poliarchia ha una sua storia intellettuale che si è tentato di ricostruire, una storia per la verità non molto nota. Potremmo definirne una specie di biografia del concetto, qualcuno la fa giustamente cominciare da Althusius all’inizio del ‘600 e dal suo magistrato “polyarchicus”. In ogni caso ciò che caratterizza questa storia è che nella poliarchia la funzione della politica non è quella di ricondurre ad unità la diversità delle sfere sociali. Al contrario, nella poliarchia, molteplicità e politica convivono felicemente non solo in una dimensione che potremmo definire verticale (la divisione dei poteri politici) ma anche in una dimensione orizzontale, quella che il politologo americano Robert Dahl in uno dei suoi primi libri chiamava la “divisione sociale dei poteri”. In altre parole nella poliarchia non basta che la politica sia tenuta a bada dalla divisione interna dei poteri: occorre che i poteri sociali, e non solo quelli politici, siano in qualche modo distinti ed in equilibrio, senza supremazie e senza primati. La poliarchia è il primato della diversità e della molteplicità; se vogliamo, è il primato della sana competizione. La competizione, quindi, non è il difetto del quale depurare la società, al contrario, è il suo modo fisiologico di comporre diversità, giustizia e bene comune. Come scrive un teologo protestante americano contemporaneo “la politica è solo una delle aree della vita pubblica e mentre è del tutto appropriato che la politica regoli alcuni aspetti delle altre sfere sociali dovrebbe essere altrettanto evidente che la politica non le può dominare e, a sua volta, ne è regolata e orientata” (Stackhouse). Pensiamo a quanto questa prospettiva renda impraticabile in linea di principio l’accusa che sentiamo spesso formulare ai “mercati” di condizionare la “politica”. Altro è ovviamente sostenere che i mercati si autoregolino magicamente senza bisogno di essere incorporati in istituzioni sociali, cioè in regole, in norme e in routine. D’altra parte, il mercato non è “di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato. […] E’ certamente vero tuttavia che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché questa sia la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso”. (Caritas in Veritate n. 36)
Tutto ciò non significa auspicare una politica debole e incapace di decidere. Al contrario: la capacità di decidere è essenziale, anzi possiamo dire che prendere decisioni, cioè definire assetti determinati di interessi e valori, è il proprio della sfera politica nell’ambito della società. Per questo occorre congegnare istituzioni politiche che facilitino la decisione e non il veto, che personalizzano la responsabilità e non la anneghino in indistinti collettivi, che semplifichino le alternative e non le lascino in balia dei micropoteri di parte o di coalizione. La politica è consustanziale alla decisione. Ma non può essere una politica invadente. Insomma, decidente sì, invadente no.
La “divisione sociale dei poteri” relativizza ogni potere e costituisce quindi una polizza assicurativa contro il rischio dell’invadenza della politica e dello Stato come forma della politica. “Avrebbe poca rispondenza con la nostra realtà ravvisare nello Stato la res publica dell’ordine sociale, tutto il bene comune o anche solo il vertice gerarchico dell’intera società” dice Niklas Luhmann. Il bene comune non è monopolio di uno tra i poteri: è il frutto della loro continua relazione. L’insegnamento sociale della Chiesa – anch’esso legato alla dinamica storica e all’esercizio del discernimento – ha individuato una grande sintonia con questo punto di vista che, del resto, ha radici nella storia del pensiero cristiano. Si pensi a questo proposito al contributo del pensiero di Agostino alla relativizzazione dei poteri sociali. Come scrive il gesuita, patrologo, Hugo Rahner: “la Chiesa oppone un rifiuto eterno a qualsiasi Stato voglia edificare soltanto su questa terra il regno della felicità definitiva o che, facendo oltremodo pesare le sue pretese, vuol costringere anche la religione nel suo ambito giuridico, che è l’unico ad avere valore”.
La chiave di lettura pluralista è dunque quella che meglio consente una visione dinamica dello stesso principio di sussidiarietà elaborato nell’ambito dell’insegnamento sociale della Chiesa. Poliarchia significa dunque, a maggior ragione, piena cittadinanza nello spazio pubblico per tutte le “visioni del mondo”, dunque anche per il fatto religioso e per la comunità cristiana. “La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica.” (Caritas in Veritate n. 56). Non si tratta affatto di un’invasione di campo. Il campo dello spazio pubblico non è riservato a nessuna istituzione in particolare. Al contrario solo un campo affollato di protagonisti capaci di dare spessore alla riflessione pubblica è in grado di far vivere una società che cresce, più giusta, più aperta, che si prende cura del bene comune
Tra le diverse istituzioni sociali quella che meglio rappresenta questa condizione di poliarchia è forse la città. La città, al contrario dello Stato, vive nella pluralità e funziona come una poliarchia. La città, nella sua materialità quotidiana, molto più dello Stato riesce a mettere in movimento l’attuale dinamica del bene comune. Lo Stato, al contrario, è spesso – per così dire – vittima di un pensiero gerarchico, certo compatibile con il pluralismo ma opposto a quello della poliarchia. Lo Stato è infatti geneticamente lo strumento di un primato della politica non più praticabile nell’attuale processo di cambiamento della società globale. “Nella nostra epoca, lo Stato si trova nella situazione di dover far fronte alle limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale, contraddistinto anche da una crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione materiali ed immateriali. Questo nuovo contesto ha modificato il potere politico degli Stati.” (Caritas in Veritate n.24). Lo Stato dunque arretra e non è certo un fenomeno nuovo. Un giurista italiano dello scorso secolo, Santi Romano, si chiedeva all’inizio del Novecento in un saggio diventato famoso, Lo stato moderno e la sua crisi, come fosse possibile continuare a parlare di Stato nel senso della cultura liberale del tempo davanti all’esplodere di partiti e sindacati. Oggi non sono partiti e sindacati a produrre il tramonto dello Stato; semmai è il processo di differenziazione della sfera economica, per sua natura sovranazionale e sovrastatale, come pure il processo di globalizzazione giuridica, il diritto globale come qualcuno dice, che crea un diritto senza Stato e amministrazioni pubbliche senza Stato. Lo Stato perde cioè il monopolio della produzione giuridica, e tramonta per l’articolarsi dei livelli di governo, interstatali e sovrastatali. Per questo non trova quasi nessuna giustificazione il ricorso, in questa fase, alla categoria dell’autorità politica mondiale con la quale cercare di garantire un ordine globale. Se di ordine globale si può parlare si tratta di un ordine a sua volta plurale. Dice Benedetto XVI nella Caritas in Veritate: “la globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace” (n. 57).
città riprendono dunque il loro ruolo centrale, crocevia della produzione economica, fulcro della dinamica culturale, spazio privilegiato per l’esperienza religiosa. E’ il “trionfo delle città” come dice il titolo di un libro recente di un economista americano, Edward Glaeser, il trionfo della nostra più grande invenzione sociale. A questo proposito penso sia utile riflettere brevemente sul rapporto tra la Chiesa e la Città, non come forma di un dialogo tra interessi specifici e particolari ma come espressione di una forma generale della società poliarchica. La Chiesa è chiamata – certo non da sola – a svolgere nella Città quel compito che definiamo di “relativizzazione” dei poteri, sia politici che economici, scientifici o tecnici, a volte persino religiosi, perché nessuno di essi pretenda di essere assoluto. L’esserci della Chiesa desacralizza, “laicizza”, ogni potere, destituendolo di ogni pretesa sintetica e riportandolo a strumento di azioni misurabili, valutabili, imputabili. Questo dice l’insegnamento sociale della Chiesa quando propone il concetto di sussidiarietà. E questo oggi, in Italia e in Europa, significa criticare ogni pretesa di sovranità assoluta. Per questo va “criticata” ogni chiusura e inamovibilità, ogni irresponsabilità e ogni “investitura” nell’esercizio dei pubblici poteri, politici o di altro ordine. Del resto la stessa Scrittura, ed in particolare il Nuovo Testamento, ci propongono un’idea di poteri che reciprocamente si controllano e si limitano e lo spazio di questi poteri è per l’appunto la Città. Le lunghe controversie sul brano di Mt 22,15-22 o su quello di Rm 13,1 costituiscono la radice lontana e sempre attuale di questo itinerario. Dice Oscar Cullmann: “il Vangelo deve per principio fissare la propria attitudine nei confronti della polis presente, dello stato presente, proprio in quanto ha lo sguardo rivolto alla comunità del secolo futuro”. E’ qui che si fonda la dimensione di relativizzazione cui accennavo poco fa.
La buona Città terrena è dunque pluriforme non uniforme, poliarchica non monarchica, democratica non autoritaria: è, diremmo oggi, una città aperta, mai chiusa e, come amava dire Sturzo, pervasa da “sano agonismo”. In questa città nessun ceto e nessuna singola istituzione è addetta o arbitra del bene comune, che deve essere, invece, misura dell’operato di ciascun individuo e di ciascun gruppo. E si badi bene, la Chiesa stessa non può arrogarsi il compito della sintesi. Semmai, possono esserci momenti nei quali, proprio per la sua natura paradossale, la Chiesa può offrire a tutti uno spazio di libertà, come è avvenuto, ad esempio, durante i momenti più bui dei totalitarismi del XX secolo.
Bene comune, poliarchia e città sono dunque le categorie con le quali cercare di leggere questo momento di grande trasformazione, e sono anche le categorie con le quali il nostro paese dovrebbe affrontare la difficile crisi di quest’ultimo periodo. Categorie essenziali per superare la crisi senza ledere, come dice Benedetto XVI, la libertà e raggiungendo obiettivi efficaci. Può apparire un ragionamento troppo astratto, troppo teorico, rispetto alla realtà che abbiamo di fronte a noi. Io non penso che le cose stiano così e vi invito a riflettere su quanti temi dell’attualità politica, economica, culturale sono direttamente attraversati da questo nostro ragionamento su bene comune, poliarchia e città. Pensiamo al grande tema del governo europeo a gran voce richiesto per mettere ordine nella tempesta finanziaria. Certo un governo europeo, ma un governo europeo con quali ambiti di azione e con quali caratteristiche di funzionamento? Non certo un superstato europeo, ci dice con chiarezza il modello poliarchico. E ancora, portiamo la nostra attenzione sulla questione della crescita e delle maggiori opportunità per tutti. Può la sfera politica immaginare di fare tutto da sola? Può lo stato pensare di ricondurre a sé in tutto o in parte il dinamismo della sfera economica, rinazionalizzando processi decisionali ormai di livello sovranazionale o abbandonando la strada della sussidiarietà e del federalismo, ignorando il potere della dimensione urbana della città nella ricerca di nuove traiettorie di sviluppo? Giovanni Paolo II, nella Centesimus Annus, dice: incamminandosi in questa direzione, “intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese”(n. 48). E infine, la ricerca di valori condivisi come condizione di socialità e di fiducia tra persone, gruppi, istituzioni può riferirsi ad un bene comune concepito come qualcosa di astorico e monolitico e non come qualcosa di dinamico e plurale, in costante riferimento alla dimensione della persona e dei suoi diritti, quelli di cui parla l’articolo 2 della nostra Costituzione, non a caso aperto ad evoluzioni e arricchimenti? Ecco come “bene comune, poliarchia e città” diventano punti di riferimento per l’azione concreta e strumenti capaci di discriminare, ossia di alimentare un esercizio di discernimento. Ed è su questo punto che vorrei concludere.
Per quanto mi riguarda e per quanto riguarda l’esperienza storica della Chiesa italiana, è la pratica del discernimento ad aver messo in moto questo insieme di riflessioni. La pratica del discernimento equivale alla fatica dell’interpretazione. In questa fatica non ci sono semplicemente “i principi” da una parte, e poi “la realtà” dall’altra, alla quale applicarli. E’ ingenuo pensare ad una “dottrina sociale della Chiesa” bella e pronta che va poi applicata alla “realtà sociale”. Il dinamismo del discernimento ha una sua sostanziale circolarità. La fatica di interpretare la situazione, in un’ottica cristiana, significa accettare che la verità ha una forma più complessa di quella che noi pensiamo e che il significato della obbedienza cui siamo chiamati mette alla prova tanto l’intelletto quanto la volontà. Come scriveva il grande teologo von Balthasar in Abbattere i bastioni, la verità è ellittica, esige di essere guardata da più punti di vista e di assumere dunque la fatica di spostarsi, camminare dall’uno all’altro di questi punti. E la verità è temporalizzata, è una verità nel tempo. Il discernimento produce dunque giudizi, non principi. Giudizi fallibili, storicamente condizionati, aperti al confronto critico. Per questo il cammino di discernimento della Chiesa in Italia è fatto di un paziente dialogo tra la fede e la storia e non di una raccolta deduttiva di valori e di principi. D’altra parte se nel corso della storia cresce la comprensione della Rivelazione (Dei Verbum n.8) come non ritenere che anche la comprensione della dimensione morale e di quella sociale siano sottoposte ad un sapere critico in costante cambiamento?
Per questo non c’è opposizione tra i principi e “i segni dei tempi”, non ci sono interpretazioni da applicare ai fatti concreti, non ci sono valori da utilizzare come simboli in una contesa tra sistemi di pensiero. Al contrario, c’è una storia alla quale essere fedeli, una storia di uomini e di donne concrete da ascoltare, da meditare, dalla quale dobbiamo anche apprendere. E c’è un cammino di interpretazione da non interrompere, un cammino illuminato da un ricerca sincera della verità, da un esercizio esigente di discernimento, da un ascolto umile dei maestri, da un impegno maturo per decisioni e scelte essenziali per la nostra vita personale e per il futuro del Paese nel suo insieme.