Ritiro del clero a Roccaporena

Ritiro del clero a Roccaporena

Oggi è la festa della Madonna del Ponte, un santuario caro alla nostra Chiesa diocesana, e che si lega ai tanti altri luoghi che testimoniano la devozione a Maria nella nostra terra, penso in particolare alla cattedrale di terni e alla con cattedrale di Amelia. All’inizio di ottobre ci recheremo in pellegrinaggio alla Madonna del Ponte con i giovani della Diocesi per stringerci, all’inizio dell’anno scolastico, attorno alla Madre di Gesù e nostra. Quest’oggi, mentre poniamo la nostra attenzione sui giovani della Diocesi, vogliamo porli sotto la protezione di Maria. O, se volete, amarli come lei li ama; guardarli come lei li guarda; e invocare per loro l’aiuto del Signore come Maria fece per i due giovani sposi di Cana. “Non hanno più vino”, disse a Gesù. E davvero i nostri giovani spesso non hanno più speranza, non hanno più sogni, non hanno più amici veri. Sì, sono soli e abbandonati, preda di chi li compra. Questa santa Liturgia vorrei fosse come quella preghiera di Maria per i nostri giovani perché si possa anche nella nostra Diocesi compiere il miracolo di Cana.
Ma è necessaria una condizione perché il miracolo si compia. Certamente serve la nostra applicazione e sono importanti anche le nostre doti. Ma quel che è  davvero indispensabile è la nostra disponibilità a lasciarci riempire il cuore dall’amore; o, se volete, avere lo stesso amore e la stessa preoccupazione che Maria aveva per quei due giovani di Cana. Spesso lo diamo per scontato. Ma non è così. Talora crediamo già di amare sufficientemente; oppure, pensiamo di fare già tanto; e qualcuno arriva a pensare di dare anche troppo. La pagina evangelica di oggi e la lettera di Paolo ai Colossesi ci vengono incontro per educarci all’amore evangelico. E, lo vediamo subito, è un amore esaltante ed esigente, pieno di senso ma anche di radicalità. In un certo senso è un amore impossibile. Come, infatti, è possibile essere misericordiosi come lo è il Padre? Eppure Gesù lo dice: “Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli”. E prima di giungere a tale affermazione ne delinea qualche tratto. “Amate i vostri nemici!”. Noi amiamo si è no quelli che ci stanno simpatici! “Pregate per coloro che vi maltrattano!”. La gente in genere prega solo per sé e per i propri cari. “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra!”. Sapete quanto viene distorta l’interpretazione di queste parole. Vengono intese come un proposta di cedimento, di pusillanimità. Non è così. Sono parole che richiedono una forza incredibile. Quella che ebbe Gesù quando gli diedero uno schiaffo. Gesù reagì, ma con mitezza e con incredibile forza. “A chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica!” E’ di questa qualità la nostra generosità? E Gesù aggiunge: “Se amate quelli che vi amano che merito ne avrete?” E’ normale amare quelli che ci sono amici e fare del bene a quelli che ci amano. Ma non è questo quel che distingue il discepolo di Gesù dagli altri. Chi vuol seguire Gesù deve amare anche i nemici, anche gli estranei, anche quelli che non ci sono antipatici, anche quelli che ci fanno del male. Ed è ovvio che questo è impossibile. Amare il nemico, amarlo come un fratello, e quindi dare la vita per lui, perdonarlo sempre, più di settanta volte sette, non opporre resistenza al malvagio, dare la nostra vita per tutti, amare senza porre limiti, sono tutti comandi impossibili. Solo il Signore poteva dirceli. E lui ci dona la forza di compierli. Ma il problema è che noi troppo facilmente parliamo di amore, e spesso equivochiamo.
Eppure è qui la sostanza della nostra vita spirituale e dello stesso Ordine Sacro. L’amore di Dio si distingue dagli altri amori, anche da quelli che noi spesso coltiviamo. Voi sapete che i primi cristiani per parlare dell’amore cristiano inventarono una parola nuova. Non usarono “eros” e neppure “filia”, bensì “agape”. Con il termine “agape” si introduceva una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (“eros”) e che nemmeno semplicemente si rallegra della sua presenza (“philia”), ma, appena concepibile dagli uomini, trova il suo modello culminante nel calvario di Cristo: amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori di ogni reciprocità. Con questo termine, perciò, che esprime la radicalità più assoluta, si può persino sintetizzare tutta la vicenda biblica: Dio “scende” sulla terra per amare gli uomini sino alla fine. In tal senso l’agape non viene dagli uomini, scende dall’alto, perché è Dio stesso, come afferma san Giovanni: “Dio è amore”. Il cristianesimo – in questo si differenzia da altre fedi – più che religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Gesù crocifisso è l’esito paradossale ma necessario di questo itinerario.
Per questo l’agape, cuore della vita del credente, è superiore a tutte le virtù. Non c’è nulla al disopra: né la profezia, né l’ineffabile lingua degli angeli e nemmeno la speranza; e neppure la conoscenza, la quale in questo mondo è così misera sì che conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”. L’amore è superiore persino alla fede. Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice: “Se avrete fede quanto un granellino di senape potrete dire a questo monte spostati da qui a lì, ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile”. E San Paolo con un incredibile capovolgimento: “Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla”. Tutto passerà, anche la fede e la speranza. Al termine resterà solo l’amore.
Sì, c’è già tutto nell’amore. E quindi non lo si possiede mai pienamente. E’ sempre oltre. Mentre si possiede si deve continuamente cercarlo. L’amore è Spirito, e lo Spirito soffia dove vuole, non può essere posseduto. Si può ricevere e quindi dobbiamo invocarlo da Dio. E due sono le vie per riceverlo e incontrarlo: l’esperienza mistica della preghiera e il servizio a tutti a partire dai più poveri e dai più deboli. E’ in questa duplice direzione che noi possiamo vivere e crescere nell’amore. Oggi abbiamo posto l’attenzione ai giovani, a questi figli deboli della nostra società. Sono i nostri figli. Se poniamo tanta attenzione a noi stessi, alle nostre cose, alla nostra posizione, alle nostre condizioni, quanto più dovremmo amare i più giovani? Dice Paolo ai Colossesi: “Rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi l’un latro”. L’apostolo descrive le virtù del cristiano, Ma queste sono anche le virtù dell’educatore dei giovani, quelle che manifestano l’amore per questi nostr fratelli più piccoli, ma bisognosi anzitutto di amore e di misericordia. Hanno bisogno che qualcuno si commuova su di loro. Che li senta suoi figli. Questo è il senso della frase di Paolo: “Al di sopra di tutto vi sia poi la carità”. Cosa vuol dire? Che al di sopra di se stessi deve esserci la commozione per loro. Così ha sentito Dio, così ha vissuto Gesù. Questo ha imparato Maria e l’ha messo in pratica a Cana.