Ordinazione sacerdotale di Matteo Antonelli
Care sorelle e cari fratelli, carissimo Matteo,
è un giorno santo oggi per la nostra Chiesa diocesana. Mentre celebriamo la memoria della Immacolata Concezione di Maria, uno dei figli di questa Chiesa viene consacrato sacerdote. Tutti siamo coinvolti in uno straordinario mistero di amore. Vorrei gustarlo lasciandoci guidare dalle parole evangeliche che abbiamo ascoltato, come per comprenderlo nel mistero stesso della maternità di Maria, icona della Chiesa. Sento vere anche per questa Chiesa le parole dell’angelo rivolte a Maria: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. Sì, il Vangelo ci rivela che il Signore oggi è venuto nel cuore stesso della Chiesa per conferire ad uno dei suoi figli il dono del sacerdozio che rende la Chiesa madre di grazia.
La nostra commozione è il segno di quella intuizione spirituale che fa cogliere il senso del mistero che stiamo celebrando. E’ la vostra commozione cari genitori di Matteo che assieme ai fratelli gioite per questo dono, è la gioia di noi sacerdoti nell’avere un fratello in più – don Giorgio l’ho sentito questa mattina vuole farti giungere il suo saluto -, la gioia di voi tutti particolarmente di voi dell’Azione cattolica dalle cui fila Matteo proviene e che oggi celebrate la vostra festa, e così noi tutti. Giustamente i nostri occhi sono rivolti verso Matteo. Ma la liturgia invita noi tutti, Matteo compreso, ad alzare gli occhi al Signore. Solo guardando Lui intuiremo la grandezza del dono che stiamo ricevendo. E’ Dio al centro di questa nostra assemblea; è da Lui che scaturisce il sacerdozio di Matteo. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati”(Eb 5,1). Matteo non ha scelto lui di essere prete, ha risposto ad una chiamata; non si è fatto prete da sé e neppure per sé. Continua la Lettera agli Ebrei: “Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non è chiamato da Dio, come Aronne”(Eb 5, 4). Ogni protagonismo è bandito. Siamo tutti rivolti al Signore e gli rendiamo grazie.
Egli ha rivolto il suo sguardo verso questa sua Chiesa, e ne ha avuto compassione. Ha rivolto i suoi occhi verso le nostre città e ha visto le tristezze e le angosce della gente che le abita, ha scorto il dolore e l’abbandono dei poveri e dei deboli, ed ha udito le preghiere di tanti che si levano al cielo perché ci sia più pace, più serenità. La pagina della Genesi che abbiamo ascoltato non è estranea alla vita delle nostre città: come Adamo ed Eva anche noi siamo nudi di amore, i nostri rapporti avvelenati, e il serpente continua a seminare discordia. Per questo è cresciuta la violenza e frequente l’abbandono, si è fatto più robusto l’amore per se stessi e più facile la dimenticanza. Il peccato originale, che facilmente dimentichiamo, è una triste e dura realtà. Ma il Signore non ci ha abbandonato. Ha avuto compassione di noi e ha chiamato te, caro Matteo, perché avessimo un aiuto in più per lottare contro il serpente della divisione e tessere una rete di amore tra tutti. La tua ordinazione è un invito di Dio alla Chiesa diocesana per un rinnovato impegno di amore per tutti. Sei un aiuto prezioso per noi. E ne ringraziamo il Signore. Assieme alla gioia che sentiamo, questa celebrazione suscita in noi anche un’inquietudine, un “turbamento”, quello che sentì Maria all’annuncio dell’angelo: “A quelle parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto”. Sì, questa celebrazione – se guardiamo bene – turba la nostra tranquillità, scuote la scontatezza del nostro essere cristiani, mette in subbuglio l’individualismo con cui viviamo il Vangelo. Maria si chiese che senso avesse il saluto dell’angelo. Non debbo io, non devi tu, non dobbiamo noi tutti chiederci il senso di questa ordinazione sacerdotale? Essa viene per di più mentre celebriamo l’anno sacerdotale ricordando il santo Curato di Ars. E’ singolare che di questo santo si ricorda più il suo ufficio, il “curato”, che il suo nome, Giovanni Maria. Forse non è a caso: del sacerdote infatti si deve sottolineare il suo essere “curato”, ossia colui che “cura le anime”, più che la sua persona. La cura delle anime: è una formulazione d’altri tempi, ma esprime in maniera straordinaria la vocazione del prete chiamato, appunto, a non curare se stesso e le sue cose, bensì a prendersi cura, ossia a preoccuparsi, di coloro che gli sono stati affidati perché faccia di loro un’unica famiglia. E non è facile. La “cura animarum” – diceva Gregorio di Nazanzio ripreso poi da san Gregorio Magno – è l’arte delle arti, richiede intelligenza, santità, studio, preghiera, passione, sacrificio, e spinge il sacerdote non tanto a pensare alle sue idee o ai suoi progetti, fossero anche pastorali, ma a conquistare il cuore dei fedeli a Gesù.
Cari fratelli sacerdoti, oggi accogliamo nel nostro presbiterio un operaio in più. E’ una bella festa! Io sono felicissimo, e si vede. Questa ordinazione mi spinge a richiamare tutti noi, e assieme anche i laici, all’urgenza della comunicazione del Vangelo nelle nostre città. La Lettera pastorale, Eucarestia e Città, corre su questa linea. Siamo chiamati ad essere un solo Corpo per immettere il lievito dell’amore nel cuore delle nostre città. Non ci salveremo ciascuno per proprio conto, care sorelle e cari fratelli, ci salveremo assieme o periremo assieme. Sento perciò forte l’eco delle parole di Gesù: “Ecco, alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”(Gv 3, 35). Sì, alziamo i nostri occhi oltre gli abituali orizzonti, fossero anche quelli della nostra pastorale, e vedremo decine e decine di migliaia di persone di Terni, Narni e Amelia che non vengono in chiesa. Come non essere preoccupati? Come non essere angustiati dal fatto che la maggioranza degli abitanti dei nostri quartieri è lontana da Gesù? Come restare tranquilli? Qualcuno potrebbe dire che fa già tanto e che non può fare altro. Questa ordinazione spazza via la rassegnazione e la pigrizia che si nascondono dietro queste parole, e chiede di moltiplicare il nostro impegno, la nostra intelligenza, la nostra passione. Se non possiamo fare altro, per lo meno dobbiamo sentire aperta e bruciante la ferita della nostra pochezza e la lontananza di tanti dalla felicità dell’incontro con il Signore. Gesù, donandoci un operaio in più, è come se ci dicesse: ho fatto la mia parte, fate voi anche la vostra.
E lo dice anche a te, caro Matteo, mentre vieni incardinato in questa Chiesa per dedicare ad essa la tua vita. Vale la pena dedicare la vita per questo disegno di amore. E’ una grande libertà non appartenersi più per essere al servizio della Chiesa. Per questo scegli l’obbedienza, il celibato e la povertà. Sono le qualifiche stesse della Chiesa che tutti i cristiani debbono vivere sebbene nel sacerdote in maniera peculiare. La Chiesa infatti non obbedisce a nessun altro se non al Signore. La Chiesa non ha altro amore se non il Signore. La Chiesa non ha altra ricchezza al di fuori del Signore. Per questo, come figlio di questa Chiesa, non devi obbedire ad altro che alla voce del Signore e di questa madre a partire dal vescovo; non devi avere altro amore che le persone che ti sono affidate; non devi avere altra ricchezza che il Vangelo che ti è stato donato. E’ una scelta alta e paradossale. Il mondo fa fatica a comprenderla. E magari pensa che sia impossibile. Ma anche Maria pensava impossibile quello che l’angelo le stava annunciando: “Com’è possibile questo?” Questa sera stessa anche te viene detto: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”. Sì, riceverai dallo Spirito il “potere” di consacrare, di perdonare, di confortare e consolare, di opporti al male e di diffondere il bene, di far arretrare la violenza e di compiere miracoli di amore. E’ un “potere” vero, reale, più forte dei tanti poteri di questo mondo. Ti dona la forza di cambiare il cuore tuo e quello degli altri, di trasformare il deserto di violenza in una terra bella per l’amore. Ricordati, caro Matteo, non lasciarti prendere dalla rassegnazione dicendo che non si può fare niente; perché nulla è impossibile a Dio.
Questo potere non nasce da te o dalle tue qualità. Viene da Dio. Ecco perché tra poco sarai steso a terra e il Signore ti coprirà con la sua ombra perché il tuo sacerdozio sia fecondo, come fecondo fu il seno di Maria. Giovanni Paolo II, ricordando la sua ordinazione, scrisse: “C’è qualcosa di impressionante nella prostrazione degli ordinandi: è il simbolo della loro totale sottomissione di fronte alla maestà di Dio e contemporaneamente della piena disponibilità all’azione dello Spirito Santo…”(Dono e mistero, 52-53). Più di qualche volta – mi ha confidato uno dei suoi amici più intimi – lo trovavano steso per terra a pregare. Carissimo Matteo, il tuo sacerdozio è segnato dalla memoria della Immacolata Concezione di Maria. Guardala e assieme a lei ripeti: “Eccomi, sono il servo del Signore, avvenga a me quello che hai detto”.