Dall’Humanae vitae ad Amoris Laetitia
Volendo individuare un “filo rosso” che lega l’Humanae vitae e l’Amoris laetitia, due documenti emanati in tempi tanto differenti sotto il profilo storico, culturale ed ecclesiale, vorrei proporre qualche riflessione sul tema della generazione, per mostrarne la centralità, tanto nell’enciclica di Paolo VI, che di fatto venne annunciata nel Concilio con la famosa nota 14 del n. 51 della Gaudium et spes, quanto nell’esortazione apostolica di Francesco, che pure si colloca a coronamento dei due Sinodi dedicati alla famiglia nel mondo contemporaneo. Tre saranno in passaggi della mia proposta di riflessione: 1) la “connessione inscindibile” tra sessualità sponsale e generazione responsabile; 2) dal matrimonio alla famiglia come “motore della storia”; 3) la cura delle relazioni familiari ferite.
La connessione inscindibile tra sponsalità e generazione
L’Humanae vitae ha suscitato un’enorme catena di commenti e reazioni che, a giudizio di molti, non ha avuto l’eguale nella Chiesa, per almeno quanto riguarda un’enciclica. Analogamente, anche Amoris laetitia è stato detto recentemente (card. W. Kasper) che nessuna esortazione apostolica ha mai suscitato nella Chiesa un dibattito tanto acceso e intenso.
All’interno delle numerose questioni teologiche, e soprattutto teologico-morali, che nel corso di questi cinquant’anni hanno visto concentrarsi sulla Humanae vitae una grande discussione, vorrei qui soffermarmi sull’affermazione che mi pare centrale in questa enciclica, perché costituisce la sua più sapiente e preziosa eredità teologica e antropologica: la «connessione inscindibile» (HV 12) tra sponsalità e generazione, nel matrimonio. La formula è da inscrivere all’interno del precedente n. 9, dove Paolo VI ricorda le quattro “caratteristiche” fondamentali dell’amore coniugale: un «amore pienamente umano, vale a dire nello stesso tempo sensibile e spirituale», un «amore totale, vale a dire una forma tutta speciale di amicizia personale», un «amore fedele ed esclusivo fino alla morte», un «amore fecondo». Così Paolo VI affermava che l’amore coniugale, come tale, è fecondo, superando in un colpo solo la annosa questione del rapporto tra i fini del matrimonio, il fine primario (la prolis generatio et educatio) e il fine secondario (mutuum adiutorium e remedium concupiscentiae). In questo modo la fecondità della generazione veniva pensata come una caratteristica intrinseca all’amore coniugale e non una sua aggiunta successiva. Questa mi pare il primo, essenziale, “guadagno” dell’enciclica di Paolo VI. Una lezione profetica di sapienza umana, che non possiamo e non dobbiamo perdere.
E’ necessario ricordare che già in quel periodo storico – siamo alla fine degli anni ’60 – il papa aveva intuito una difficoltà e una obiezione che allora erano soltanto agli inizi e che oggi, indubbiamente, hanno trovato una radicalizzazione oserei dire estrema: la separazione tra amore coniugale e generazione. Nella cultura attuale – sia nella vita quotidiana sia, soprattutto, nelle sue forme mediatiche – il sesso è totalmente separato dalla generazione: esso è ricondotto unicamente al piacere personale. In questo modo non appare più evidente come un figlio meriti di essere generato all’interno di una relazione di amore tra un uomo e una donna, e nemmeno all’interno di una relazione stabile, socialmente istituita e riconosciuta: una famiglia. Quasi cinquant’anni dopo, in modo molto esplicito l’Amoris laetitia dice a questo proposito che «ogni bambino ha il diritto di ricevere l’amore di un padre e di una madre … Non si tratta solo dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza, come nido che accoglie e come fondamento della famiglia» (AL 172).
La “connessione inscindibile” tra amore sponsale e generazione significa che ogni figlio è il “capolavoro” compiuto di questa relazione: come dice l’Amoris laetitia, al n. 13, egli è il frutto del dono reciproco e come dice la Gaudium et spes, al n. 48 b, egli è il «coronamento» dell’amore. Potremmo dire che l’attesa di un figlio è il compimento di un desiderio che non può mancare in un rapporto sponsale. Quando un uomo e una donna si innamorano e poi decidono di sposarsi, nella loro attrazione reciproca è presente da subito un “terzo”: sposarsi vuol dire riconoscere nel futuro coniuge anche il padre e la madre dei propri figli.
Nello stesso tempo, però, il figlio va al di là di ogni attesa dei genitori: egli rimane sempre un altro, imprevedibile e non riducibile al pur legittimo e necessario desiderio del padre e della madre. Ogni figlio introduce una novità sorprendente nella relazione coniugale: la sua presenza allieta la coppia e la trasforma in una famiglia. Su questo ci sono parole molto belle in Amoris laetitia, soprattutto nel capitolo V, per esempio laddove si descrive l’attesa della gravidanza (AL 170).
Il riconoscimento della connessione inscindibile tra amore coniugale e generazione, nell’ Humanae vitae, tuttavia, non significa che ogni rapporto coniugale debba essere necessariamente fecondo. Con questa affermazione, l’enciclica raccoglie l’apertura di Pio XII, nella famosa Allocuzione alle ostetriche del 1951. È per tale ragione che, riprendendo peraltro una felicissima intuizione del Concilio (GS n. 50 e 51), Paolo VI riconosce che la procreazione dev’essere «responsabile» e – come è noto – indica nei metodi naturali il modo per realizzare tale responsabilità. Successivamente, nell’esortazione post-sinodale Familiaris consortio, Giovanni Paolo II sottolineerà la necessità che la riflessione teologica approfondisca – oltre il semplice profilo biologico – la valenza antropologica e morale della «scelta dei ritmi naturali»: questa infatti «comporta l’accettazione del tempo della persona, cioè della donna, e con ciò l’accettazione anche del dialogo, del rispetto reciproco, della comune responsabilità, del dominio di sé» (32 d).
L’idea della responsabilità della generazione, nel Concilio e nell’Humanae vitae, sembra anche alludere che, in essa, i genitori rispondono attivamente ad un dono di Dio. Questo è quanto dice espressamente l’Amoris laetitia al n. 166: «la famiglia è l’ambito non solo della generazione, ma anche dell’accoglienza della vita che arriva come dono di Dio» (AL 166), «un progetto eterno di Dio e del suo amore eterno» (AL 168). I genitori non sono i creatori dei propri figli, ma sono custodi di un dono che li coinvolge in prima persona, chiedendo loro di essere testimoni per essi dell’amore di Dio, che è insieme “paterno” e “materno” (Osea 11; Lc 15,11-32).
Dal matrimonio alla famiglia: di generazione in generazione
L’Amoris laetitia sembra proprio raccogliere il testimone della Humanae vitae quando, nell’affascinante capitolo IV, proponendo una meditazione biblica sulla dinamica «sensibile e spirituale» (HV 9) della relazione coniugale, descrive questa commentando il famoso inno all’agape del capitolo 13 della prima lettera ai Corinti. L’Amoris laetitia raccoglie il testimone dell’Humanae vitae anche quando, nel capitolo V, parlando dell’«amore che diventa fecondo» allarga il discorso sulle relazioni familiari, comprendendo in esse le varie figure che compongono la famiglia umana: i genitori anziani e i nonni (AL 191-193), i fratelli (AL 194-195), «gli zii, i cugini ed anche i vicini» (AL 187), fino al «suocero, la suocera e tutti i parenti del coniuge» (AL 198).
Tutti questi rapporti costituiscono la «famiglia allargata» (AL 178-186): andando «oltre il piccolo cerchio formato dai coniugi e dai loro figli» (AL 196), questa diventa una scuola di ospitalità, che allarga le pareti domestiche e può giungere fino ad «accogliere con tanto amore le ragazze madri, i bambini senza genitori, le donne sole che devono portare avanti l’educazione dei loro figli, le persone con disabilità che richiedono molto affetto e vicinanza, i giovani che lottano contro una dipendenza, le persone non sposate, quelle separate o vedove che soffrono la solitudine, gli anziani e i malati che non ricevono l’appoggio dei loro figli, fino ad includere nel loro seno persino i più disastrati nelle condotte della loro vita» (AL 197.
È da notare che, soprattutto nei due capitoli V e VI, papa Francesco riprende la ricca meditazione sui rapporti familiari contenuta nelle sue catechesi tra i due Sinodi. In questa ottica, un particolare rilievo viene dato all’adozione e all’affido che, al di là di un senso puramente biologico, sono da intendere come una vera e propria forma di “generazione”: «l’adozione è una via per realizzare la maternità e la paternità in un modo molto generoso … adottare è l’atto d’amore di donare una famiglia a chi non l’ha» (AL 179).
Ponendosi come il paradigma generativo dei rapporti antropologici fondamentali, la famiglia si rivela essere il “motore della storia”, un’autentica scuola di vita, aperta alla società e al mondo, un “laboratorio” di relazioni umane e di responsabilità civile. Significativamente, parlando della fraternità e citando una sua catechesi del 2015, papa Francesco ha parole che descrivono in modo molto bello la ricchezza umana della famiglia: «il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace. In famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana … Forse non ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia che introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima esperienza di fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione familiare, lo stile della fraternità si irradia come una promessa sull’intera società» (AL 194).
Così, di generazione in generazione, la famiglia apre sul mondo e trasmette un modo di abitarlo, segnato non dal possesso e dal dominio dispotico, ma dal dono e dalla responsabilità, secondo lo stile di quella ecologia integrale che papa Francesco ha disegnato nell’enciclica Laudato sii. In questo orizzonte, possiamo ben comprendere anche il profondo legame tra famiglia e Chiesa. Papa Francesco lo enuncia già nel III capitolo dell’Amoris laetitia, quando afferma che «la Chiesa è famiglia di famiglie» (AL 87) e aggiunge: «la Chiesa è un bene per la famiglia, la famiglia è un bene per la Chiesa» (87).
La cura delle relazioni familiari fragili e ferite
Solo all’interno di questo sfondo ecclesiologico, antropologico e pastorale, possiamo comprendere il capitolo VIII dell’Amoris laetitia, dedicato ad «accompagnare, discernere e integrare la fragilità». L’intento di papa Francesco è bene espresso all’inizio di questo capitolo, dove, riferendosi alle situazioni familiari fragili o imperfette, egli afferma che «la Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta» (AL 291).
Perché la Chiesa possa rimanere fedele alla sua missione, in questo capitolo, papa Francesco invita ad un cambiamento di sguardo pastorale. Due sono le situazioni sulle quali egli si sofferma con particolare attenzione: la prima è quella sempre più diffusa della «semplice convivenza» (AL 293) o analogamente di un «matrimonio solo civile» (AL 293). In questi casi, egli invita ad evitare la condanna aprioristica, per porsi invece nell’ottica di un discernimento pastorale, volto a valorizzare «quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio» (AL 294). In altre parole, secondo il papa, «queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformale in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo» (AL 294). Si aprono qui interessanti e decisive prospettive di nuove prassi pastorali.
La seconda attenzione sulla quale molto si diffonde il capitolo VIII, riguarda le «situazioni dette “irregolari”» (AL 296-300) o meglio le «situazioni di fragilità e di imperfezione» (AL 296). È il caso dei divorziati risposati. In queste situazioni, dobbiamo anzitutto sottolineare un elemento di forte continuità tra papa Francesco e Giovanni Paolo II, dal momento che egli prosegue in modo deciso la linea che già la Familiaris consortio aveva indicato nel 1981. Superando l’antica scomunica, Giovanni Paolo II in FC 84 – poi recepito dal nuovo Codice di diritto canonico del 1983 – aveva invitato «i pastori e l’intera comunità dei fedeli» (FC 84 b) a non considerare i divorziati risposati «separati dalla vita della Chiesa» (FC 84 b) e anzi li aveva esortati «in quanto battezzati» a «partecipare alla sua vita» (FC 84 b).
È proprio su questa linea che, in un tempo diverso e in presenza di un notevole incremento di tali situazioni, papa Francesco ha ulteriormente indirizzato la Chiesa a percorrere la via dell’accompagnamento e dell’integrazione. Papa Giovanni Paolo II aveva tolto la scomunica per i divorziati risposati, ma aveva lasciato per essi la proibizione dell’accesso ai sacramenti, pur ammettendo un’eccezione: egli prevedeva infatti che, per motivi legati ad esempio all’educazione dei figli, i due divorziati risposati, senza abbandonare la convivenza sotto lo stesso tetto, potessero accedere ai sacramenti, laddove si fossero impegnati a «vivere in piena continenza» e cioè ad «astenersi dagli atti propri dei coniugi» (AL 84 c).
Ponendosi su questa strada, ma senza volere fornire una nuova norma generale, papa Francesco ha invitato la Chiesa tutta a operare un ulteriore discernimento personale e pastorale, che preveda, all’interno di un cammino di accompagnamento pastorale e in casi specifici, la possibilità che i due accedano ai sacramenti, pur mantenendo a tutti gli effetti una vita coniugale. Anche qui, è la sollecitudine pastorale che muove papa Francesco: egli riconosce certo che la situazione dei divorziati risposati costituisca «una situazione oggettiva di peccato» (AL 305) – e dunque non sminuisce affatto e tantomeno nega il comandamento della fedeltà coniugale, il “non commettere adulterio” – ma afferma anche che in determinate situazioni concrete, «a causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti» (AL 305) l’opera del discernimento, personale e pastorale, possa giungere a riconoscere che una certa situazione «non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno» (AL 305).
In questo modo il papa invita tutta la Chiesa al coraggio di una fede appassionata – non reticente e non pigra, veramente missionaria e non dimissionaria – per la causa del riscatto e della redenzione dell’umana creatura, ferita dal peccato. Questa fede chiede incessantemente a Dio il dono della sapienza e dell’intelligenza evangelica dello Spirito del Signore, per riconoscere le condizioni di riscatto delle concrete vicende personali: evitando, proprio in virtù di questa obbedienza della fede, di trasformare l’intimo discernimento evangelico di una particolare storia di vita nell’estrinseca legittimazione generale di una condotta difforme dal bene. Così, richiamandosi a un famoso passo della Summa theologiae di san Tommaso, da una parte egli afferma con decisione: «è vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare» (AL 304), ma d’altra parte, ricordando che le norme, «nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (AL 304), afferma che, «proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (AL 304). Papa Francesco ci invita così a superare facili schematismi, affermando che quando pretendiamo di dire facilmente «che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio» (305). È necessario sempre cercare il «bene possibile» (AL 308), che è nemico tanto dell’ottimo – idealisticamente rappresentato – quanto del cattivo – come se l’uomo in certe situazioni della vita fosse condannato a fare il male –.
Conclusione
A conclusione di questa breve riflessione, vorrei ricordare quanto scrive papa Francesco all’inizio dell’Amoris laetitia, al n. 2, dove, richiamando la centralità del matrimonio e della famiglia, come luogo originario delle relazioni umane, invitava i pastori e i teologi ad una riflessione teologica e pastorale ulteriore, che fosse nello stesso tempo «fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa», e che sapesse resistere ad un duplice estremo: da una parte quello di volere «cambiare tutto» e dall’altro quello di volere «risolvere tutto» limitandosi ad “applicare” una normativa generale e riducendo tutto ad «una morale fredda da scrivania» (AL 312).
Così scrive papa Francesco: «il cammino sinodale ha permesso di porre sul tappeto la situazione delle famiglie nel mondo attuale, di allargare il nostro sguardo e di ravvivare la nostra consapevolezza sull’importanza del matrimonio e della famiglia. Al tempo stesso, la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali. La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza. I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (AL 2).
Possiamo riconoscere – serenamente, ma anche responsabilmente – di essere in debito anche nei confronti dell’Humanae vitae, per quanto riguarda gli elementi di fondo della sua antropologia e della sua ecclesiologia dell’amore coniugale-familiare, dei quali il magistero successivo ha messo ulteriormente in luce la fecondità. La sua rilettura, nel contesto delle odierne dinamiche pastorali, conferma una verità che non deve essere in alcun modo diminuita: vivere la tradizione del magistero della fede, nel solco della concreta vita ecclesiale, è la condizione necessaria affinché essa rimanga uno spirito vivo e non una lettera morta. In altri termini, come s’è accennato, l’autentica fedeltà alla Chiesa esige una onestà intellettuale profonda, una convinta assimilazione dell’unità di pastorale e dottrina, una aderenza realistica alle situazioni complesse della vita e infine la creatività evangelica del “discepolo del Regno”, che si lascia guidare dallo Spirito del Signore nel discernimento delle cose antiche e delle cose nuove che formano la perenne ricchezza del tesoro ricevuto in dono, con tutti i suoi talenti da far lavorare e fruttificare. Sono quattro criteri indispensabili per la lieta coscienza della fede, la sola capace di testimoniare, nella Chiesa, la cura di Dio per questa nostra fragile umanità: spesso profondamente ferita, ma sempre anche profondamente desiderosa di un’autentica rivelazione del bene dischiuso dall’amore di Dio.
(Conferenza tenuta all’Assemblea Ecclesiale di Oppido Palmi il 15 maggio 2018)