“Fate presto, ora la politica ha bisogno dei cattolici”
“Cattolici scendete in politica. Come fu per la Dc, queste guerre chiedono l’impegno della Chiesa”. A dirlo l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita.
In occasione della presentazione dell’ultimo libro di Giorgio Merlo “La Sinistra Sociale” ha detto “va vinto anche l’io della Chiesa”. A cosa faceva riferimento?
Al fatto annotato dallo stesso Benedetto XVI, nella sua enciclica “Spe Salvi”. Il cristianesimo moderno, purtroppo, si è lasciato sopraffare da una dimensione individualista. Benedetto XVI, infatti, si chiedeva come mai noi cristiani abbiamo pensato che la salvezza fosse personale e ciascuno di noi dovesse pregare per la propria, dimenticando invece che ci salviamo come un popolo, una famiglia, una realtà associata.
Questa complicità, con l’individualismo esasperato della cultura contemporanea, rischia di rendere irrilevante il messaggio cristiano perché non scardina quelle chiusure, quelle autoreferenzialità che il Vangelo stesso è riuscito a scardinare. Ecco perché c’è bisogno di un esame di coscienza profondo, non solo etico e morale, ma anche teologico e spirituale per vivere quello che Papa Francesco continua a sostenere: una Chiesa uscita.
L’individualismo ha riguardato anche la sfera politica e in modo particolare il mondo dei cattolici, che si sono divisi in tanti piccoli partitini…
L’indebolimento della dimensione sociale della fede ha i suoi risvolti, come in tutti gli ambiti della vita, anche in quello politico. Si perde l’attenzione al sogno universale per la realizzazione dei propri individuali, di gruppo o meglio ancora di cortile. Ciò che noi, infatti, lamentiamo e lo diceva anche San Giovanni Paolo II è la mancanza di una visione comune e cioè la mancanza di un sogno per il quale lavorare tutti. I cattolici, in tal senso, dovrebbero avere una sorta di marcia in più.
In base a quale criterio?
I cattolici sanno, per Rivelazione, che tutti siamo fratelli e sorelle, che tutti abbiamo un comune destino, che tutti dobbiamo essere tesi a una fraternità.
I cattolici, però, in politica e soprattutto in Italia, oggi sono minoranza…
Non solo in politica. Sono una minoranza nella società per quanto concerne i numeri. Questo, comunque, non vuol dire un giudizio negativo. Gesù stesso ha detto che il regno di Dio è un seme piccolo, una luce, un lievito. Il problema è domandarsi se i cristiani di oggi sono sale, sono luce, sono lievito di amore e fraternità, illuminano il cammino. In questo senso l’essere minoranza non è una condanna. Quello che è da domandarsi è, piuttosto, se siamo veramente evangelici. Preferisco, dunque, non parlare di minoranza, ma di una Chiesa in esilio.
Che cosa vuol dire?
Una Chiesa che ha perso la gran parte delle protezioni civili, sociali, di potere. In questo senso lo è. Proprio perché ha perso le protezioni umane, partendo dallo Stato temporale. Oggi, però, è all’aria aperta, senza le barriere umane e ha davvero la possibilità di far emergere, per tutti, la profezia di un mondo nuovo. Non dimentichiamo che quando Israele fu portato in esilio a Babilonia, allora nacquero i grandi profeti che parlarono di un futuro per tutti. Isaia, che profetizzava che tutti i popoli tirano il lembo del mantello di Israele per andare con lui sul monte Sion, dove ogni morte è sconfitta, ogni tristezza è allontanata, oggi più che mai, è attuale.
Rivolgendosi ai cattolici li ha anche invitati a collaborare con culture politiche diverse e non più chiudersi a riccio, come invece è accaduto fino a ora?
Non dobbiamo costruirci un nostro mondo. La Chiesa non deve costruire sé stessa. Deve essere un lievito che fermenta tutta la pasta. In questo senso la dimensione della globalizzazione, che è il kairos che ci sta davanti, deve essere la preoccupazione primaria. Siamo, invece, ripiegati ancora nel nostro piccolo Paese, sui nostri piccoli partiti. C’è il tema dell’Europa da affrontare, c’è quello del mondo, delle guerre, di un’assenza totale di autorità internazionale. Noi cattolici, proprio per l’aiuto che Dio ci dà, nella consapevolezza che siamo tutti fratelli, che abitiamo questa unica casa chiamata pianeta, dovremmo aiutare i popoli a sentirsi fratelli.
Anche il movimento fondato da Don Sturzo è nato in un momento difficile e in un periodo di guerre e tensioni come quello attuale. Considerando la crisi odierna, che non risparmia alcun settore, nella difficoltà si può scorgere un’opportunità, magari con un soggetto che superi le forze che oggi siamo abituati a vedere in televisione?
Sono convinto che è giunto il momento nel quale c’è bisogno di rafforzare i legami per una nuova grande cultura politica, che viene prima dei partiti. Se riusciamo a far sorgere mille idee verso un nuovo futuro, troveremo anche i modi affinché anche attraverso i partiti o le loro organizzazioni si possa dare un avvenire all’Italia e all’Europa. Anzi, dovremmo sollecitare ancor più una responsabilità politica dei cattolici e non solo dei partiti, ma anche delle parrocchie, delle altre realtà associative. Avere davanti a noi una sorta di realtà poliarchica. Stiamo parlando di una parola usata da Giovanni Paolo II, cioè rendere le realtà cattoliche e non consapevoli che devono mettersi insieme per una nuova alleanza in grado di sconfiggere disuguaglianze, rafforzare il cammino della pace e rendere lo sviluppo più umano e fraterno. Solo così non ci sarà più un mondo bello per pochi e brutto per tanti.
Papa Francesco, intanto, ha fatto importanti passi in avanti, probabilmente ha anticipato la stessa politica. Un esempio è quello sulle coppie omosessuali. La Chiesa si sta adeguando ai cambiamenti?
Attenzione! L’apertura di Papa Francesco, in realtà, è un’apertura della mente di tanti cattolici che ancora non hanno compreso il Vangelo e cioè quello di dare il primato dell’accoglienza alle persone e non mettersi a giudicare le situazioni in maniera assoluta, dall’alto in basso. Noi siamo chiamati non a santificare quello che è scorretto, che non capiamo o che è anche sbagliato, ma a sporcarci anche le mani perché chiunque possa essere sollevato e non condannato definitivamente. In questo senso c’è una sorta di primato della vita pastorale delle relazioni su principi astratti. Questa è la nuova prospettiva che tutti dovremmo accogliere.
Perché?
Quando Gesù è venuto sulla terra, non dimentichiamolo, ha trovato un disastro e non ha benedetto chiunque. Ha preso, invece, tutti e man mano li ha fatti crescere, dicendo convertitevi e credete al Vangelo. Questa è la prospettiva pastorale.
Ovviamente in un mondo senza guerre e in cui tutti gli attori della vita pubblica si battano, con ogni strumento a disposizione, per fermare la corsa agli armamenti e fare in modo invece che si arrivi a soluzioni di pace…
Certamente! Le guerre possono finire se avanza una cultura di fraternità, mentre nel contempo diminuisce quella dell’interesse individuale o meglio ancora del particolare. Questo deve essere il grande sforzo della Chiesa. Fare in modo che tale aspirazione, dettata dal Vangelo, abbia parole giuridiche, politiche, economiche, umane, aiutando le relazioni fra tutti.