«A 5 anni già mi vedevo prete. Milosevic divenne mio amico. Con l’intelligenza artificiale potremmo migliorare il mondo»

di Tommaso Labate

Monsignor Paglia, lei ha appena scritto il “Piccolo lessico del fine vita” e sta dialogando con le più grandi aziende tecnologiche sull’Intelligenza artificiale. Trent’anni fa, il mondo guardava a lei come artefice di un’incredibile mediazione per i Balcani. Che cosa ricorda?
«Nel 1996 feci la spola tra Slobodan Milosevic e Ibrahim Rugova per concordare un testo di accordo di pace che partisse dalla scuola per poi proseguire con altri campi. Ma il vero rimpianto è per qualche anno prima, quando c’erano tutte le condizioni perché serbi, croati e bosniaci accogliessero Papa Giovanni Paolo II per parlare di una possibile trattativa di pace».
Come andò?
«Inviato da Papa Giovanni Paolo II, feci un viaggio unico passando da Zagabria, Sarajevo e Belgrado. Avevo convinto il presidente serbo Milosevic, il presidente croato Tudjiman, Karadzic e il bosniaco Jzetbegovic ad accoglierlo nelle rispettive capitali. Per avviare gli incontri. L’ipotesi saltò per l’opposizione del patriarca della chiesa ortodossa».
Che ricordi ha di Milosevic?
«Dirlo potrebbe farmi fatica e può generare dispiacere. Ma la verità è che, dopo numerosi contatti franchi ma tesi al bene sia dei serbi che degli albanesi, mi divenne amico. Di qui la mia convinzione che le parole a volte contano più delle armi. Non è ingenuità, fa parte della politica».
Era comunque l’uomo della pulizia etnica contro i musulmani di Croazia, Bosnia, Kosovo.
«Vede, la politica e la storia in alcuni momenti ci consegnano a realtà deformate, distorte, incomprensibili. E le esistenze di alcuni uomini, in queste realtà, rimangono imprigionate. Vale anche per Milosevic. Che mi parlò malissimo di Mladic, l’uomo che guidava l’esercito serbo in Bosnia».
Dopo che fu arrestato, Milosevic chiese mai di parlarle?
«Seppi che ad altre persone aveva chiesto di me, questo posso dirlo perché mi era stato riferito da più testimoni».
Pensò mai di andarlo a trovare durante la prigionia?
«Ci pensai, certo. Ma nel frattempo ero stato nominato vescovo di Terni, non c’erano le condizioni perché potessi andarlo a visitare».
La sua passione per la politica da dove nasce?
«Credo dall’infanzia a Boville Ernica, in Ciociaria. E dall’aver visto con gli occhi di un bambino l’Italia del Dopoguerra, la grande solidarietà tra gli italiani a prescindere dalle idee politiche dei singoli».
I suoi genitori?
«Mamma e papà contadini, lavoratori della terra, elettori democristiani».
Il resto della famiglia?
«Uno zio sacerdote, uno zio segretario della Dc locale. Mi impressionò il fatto che con il maresciallo dei carabinieri, anticomunista come gli altri due, aiutarono tantissimi contadini comunisti che volevano emigrare negli Stati Uniti per sfuggire alla fame».
Come?
«Bruciando tutte le tracce della loro iscrizione al Partito comunista italiano per paura che venissero intercettate dal Consolato statunitense di Napoli e che, di conseguenza, queste persone venissero respinte in partenza».
In Ciociaria venne mai a contatto con le storie delle migliaia donne violentate nel 1944 dai goumiers marocchini dell’esercito francese?
«Solo da adolescente, anni e anni dopo quei tragici fatti, quando vedevo una funzionaria del ministero dell’Interno che veniva in Ciociaria a occuparsi delle vittime. Fu come capire che la guerra produceva i suoi effetti nefasti anche molto tempo dopo la sua conclusione».
La vocazione, la chiamata: un fulmine o figlia di un processo lungo?
«La decisione di iscrivermi al seminario la presi da solo, a dieci anni. Mio padre, che era un uomo decisamente silenzioso, il giorno prima di partire volle parlarmi. Tanto la circostanza mi sembrava strana che ricordo ancora nitidamente quell’istante. Quando ci trovammo soli mi chiese: “Ma tu vuoi andare in seminario per studiare o per farti prete-prete? Perché se vuoi andare in seminario per studiare, non ti preoccupare, io ti mando direttamente a Frosinone”, che per noi ciociari voleva dire andare a studiare nella capitale».
Era la sua speranza, che fosse solo questione di studi?
«Non credo. Credo sperasse nel figlio che voleva diventare prete-prete».
Lei che cosa gli rispose?
«Che volevo fare il prete. E così sarebbe stato. Fu un processo, più che un fulmine. Anche se il momento della messa mi piaceva talmente tanto che già a cinque anni mi immaginavo dietro l’altare».
Primo incarico?
«Incardinato nella diocesi di Roma, nel 1970 mi mandarono a fare il viceparroco a Casal Palocco».
Il quartiere che Nanni Moretti avrebbe stroncato nel film “Caro diario”, accusando i suoi abitanti di essersi condannati a un’esistenza fatta di giornate in pantofole, film in cassetta, pizze nel cartone e cani dietro i cancelli.
«Quando arrivai io ci abitavano quasi esclusivamente ingegneri e piloti dell’Alitalia. Devo ammettere che l’impressione che mi diede, nel corso di quegli anni, fu quella di una sorta di realtà falsa».
Poi arrivarono la Chiesa di Sant’Egidio, la dedizione per quella Comunità.
«L’idea della Chiesa fuori dalla chiesa, l’attenzione per quello che succedeva nella periferia di Roma, che diventò il centro del nostro agire spirituale e umano. Erano anche gli anni del terrorismo, i ciclostilati con la stella a cinque punte delle Brigate rosse spuntavano fuori ovunque: a Primavalle, alla Garbatella, a Ostia nuova. L’ascolto e il Vangelo divennero un’alternativa alle scelte politiche estremiste, alla violenza».
L’incontro con Papa Giovanni Paolo II?
«Il faccia a faccia con noi di Sant’Egidio lo colpì molto perché fu molto franco e poco, come dire, ossequioso. Gli facemmo vedere un filmato sulla periferia di Roma. “Questa periferia lei forse non la vedrà mai. Qui le parrocchie non arrivano”. Ne rimase colpito, infatti ci sostenne».
E la prima volta che vide Papa Francesco?
«Risale a molto prima che diventasse Papa, ad un incontro a Valencia. E poi sapevo di lui dagli incontri con la Comunità di Sant’Egidio a Buenos Aires, dove spesso si recava anche don Matteo Zuppi. Già allora vedevamo in lui l’espressione di una nuova visione della Chiesa. Una Chiesa povera con i poveri».
Questa visione, secondo lei, resisterà ai suoi avversari interni?
«Per quanti nemici o avversari possa avere, la risposta è senz’altro sì. Potranno esserci delle resistenze, delle tentazioni di voler tornare indietro. Ma non credo sarà possibile».
L’ambizione a diventare cardinale lei ce l’ha, don Vincenzo?
«Papa Wojtyla voleva nominarmi vescovo già quando avevo 40 anni. Lo sono diventato a 55, e felicemente, per conservare la mia libertà».
Ma diventare cardinale le farebbe piacere oggi?
«Sempre però tenendo conto della mia età (80 anni l’anno prossimo, ndr) e della convinzione che nessuna carica vale la libertà…».
Ha appena finito di scrivere “L’algoritmo della vita” (Piemme), dedicato al lavoro che ha svolto sull’Intelligenza artificiale. L’AI le fa più o meno paura della bomba atomica?
«Noi siamo di fronte a un cambiamento d’epoca. E stavolta la Chiesa l’ha capito prima di molti governi e prima della politica, come dimostra anche l’intervento di Papa Francesco all’ultimo G7. Con l’atomica l’uomo poteva distruggere il mondo, come anche con il clima; con l’Intelligenza artificiale può cambiare radicalmente l’uomo e l’umano. Ma c’è un argine alle derive più devastanti: il nuovo umanesimo che l’Europa può rappresentare come punto di mediazione tra la Cina e gli Stati Uniti, l’Intelligenza artificiale usata eticamente e messa al servizio dei bisogni dei più bisognosi, del pianeta, della pace. Ci si arriva solo dialogando ma con una novità rispetto al passato: non tutto passa attraverso i governi e questo rende tutto politicamente molto più complicato».
E si torna alla politica. Chi sono i politici con cui ha dialogato di più?
«Sono e sono stati tantissimi. Da Moro a Cossiga, da Ciampi a Napolitano. Voglio ricordare quel che mi raccontava Scalfaro a proposito dei lavori dell’Assemblea costituente e del clima diverso che si respirava il pomeriggio rispetto alla mattina».
In che senso, scusi?
«Di mattina, quando si discutevano le leggi ordinarie, la conflittualità tra le forze politiche esplodeva. Nel pomeriggio, quando si discuteva della Costituzione, quelle conflittualità quasi scomparivano: tutti erano tesi a scrivere una Carta per la ricostruzione di un Paese che fosse per tutti. Quello spirito andrebbe ritrovato, e con urgenza».
Ne trova traccia oggi, nel 2024, nel confronto politico tra maggioranza e opposizione?
«La povertà di visioni, come quella che contraddistingue per esempio il sovranismo, fa più aspro il confronto, complica la ricerca di punti di mediazione e rende più difficile il raggiungimento dell’obiettivo del bene comune, secondo me».
Lei ha scritto il glossario del fine vita. Come vorrebbe morire?
«A casa mia, circondato dagli affetti più cari. Pensiamo troppo poco a come l’allungamento della vita e le tecnologie più avanzate portino con sé anche l’allungamento delle malattie e della sofferenza».
Per la Chiesa l’eutanasia rimane un tabù.
«Io penso che le sofferenze degli uomini vadano sottratte ai meccanismi freddi delle leggi. La morte fa un lavoro sporco che nessun uomo deve fare per lei. Ma va umanizzata, anzi ri-umanizzata, questo sì».

CORRIERE DELLA SERA