Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita – considerazioni conclusive
- Una prima considerazione di sintesi riguarda il clima nel quale, sin dall’inizio si è svolto questo Congresso. Un clima determinato dalla qualità dei rapporti, piacevolmente disponibili alla cooperazione e allo scambio, anche personale.
Ma vorrei aggiungere anche la percezione di un clima mentale, avvertito un po’ da tutti, mi pare, che è stato particolarmente espressivo del piacere di riscoprire l’ampiezza del confronto culturale al quale siamo chiamati, e la ricchezza delle implicazioni antropologiche e culturali del tema che siamo chiamati ad indagare. Il merito di aver posto in luce questa ampiezza va riconosciuto anzitutto al contributo dei relatori, dei discussant, degli interventi e delle sollecitazioni che sono emerse dagli apporti individuali e dai lavori di gruppo. I toni costruttivi e dialogici che hanno caratterizzato gli interventi, hanno certamente fissato un modello di stile e di linguaggio che corrisponde alla nostra ispirazione di rigore e di dialogo.
Le preziose indicazioni del discorso del Papa, d’altra parte, che hanno accolto e sviluppato la densità umanistica della proposta del Direttivo, hanno certamente portato vitalità ed entusiasmo nello spirito e nella lettera dei nostri lavori. Davvero grazie a tutti, e a ciascuno di voi.
- Una seconda puntualizzazione vorrei farla a proposito del nuovo “soggetto” dell’impegno che è venuto implicitamente a delinearsi in questo primo Congresso della nostra rinnovata Accademia.
A me sembra che abbiamo raccolto la preziosa eredità di San Giovanni Paolo II rendendola ancor più feconda per rispondere alla sua più profonda vocazione. Mi sembra che questo nuovo soggetto – sulla scia delle parole di Papa Francesco – potrebbe definirsi, sinteticamente in questi termini. E’ un soggetto che ha mostrato il rigore e la qualità professionale delle diverse forme del sapere che rappresenta, ma non coltiva in modo ideologico e pregiudiziale la loro separazione. Ritiene legittima, anche epistemologicamente, una costante attenzione all’unità dell’oggetto verso il quale si rivolgono, in definitiva, gli sforzi migliori dell’intelligenza che nutre il sapere e la cura dell’umano. Questo oggetto, infatti, è l’umano medesimo: non un’idealità astratta e formale, bensì una realtà concreta fatta di persone, di affetti, di amore e di sofferenza, di storia vissuta e creduta dai singoli, dalle comunità e dai popoli. Gli specialismi del sapere devono rimanere governati da soggetti umani: e dunque, non si rassegnano a coltivare la loro separazione e la loro parzialità come un valore assoluto. Uno scienziato, come del resto un filosofo e un teologo, non possono rimanere all’oscuro di ciò che viene alla luce negli altri linguaggi che indagano l’umano.
Le parole che narrano l’umano concretamente vissuto devono rimanere condivise e intelligibili per tutti: in tal caso, e soltanto a questa condizione, le diverse forme del sapere saranno al riparo dal pericolo, altrimenti inevitabile, di trasformare il loro specialismo parziale nella pretesa di un riduzionismo totale. Lo scienziato e il filosofo sono “uno di noi” che varca la frontiera dell’ignoto per ritornare con doni che ha l’orgoglio e la responsabilità di condividere con tutti, e a vantaggio di tutti.
- Il vero scienziato, il vero pensatore, coltivano la legittima ambizione del sapere in stretto collegamento con l’umiltà del mistero nel quale si inoltrano. L’essere umano affonda le sue radici nel mistero, da ogni lato. Ieri, con il gruppo dei giovani ricercatori abbiamo iniziato e riflettere proprio su tali questioni, per evitare un dicotomia tra sapere tecnico e sapere umanistico che restringe l’orizzonte. La pretesa di inchiodare l’umano ad una equazione risolutiva, o a un concetto definito, è destinata a fallire. Ma non soltanto a fallire cognitivamente: i suoi effetti possono essere anche molto distruttivi, dispotici, divisivi.
E qui appare un terzo aspetto del sentire comune, chiaramente espresso in questo Congresso, che riguarda, per così dire “l’oggetto”. L’oggetto della “bio-etica” non è semplicemente lo stesso della bio-logia, e neppure quello della bio-politica, benché abbia con essi – oggi più che mai – un ineliminabile rapporto. L’oggetto della bio-etica, d’altra parte, non è neppure limitato alla concentrazione sugli estremi dell’inizio e della fine: la densità del rapporto con il senso del nascere e del morire, infatti, riguarda ogni età della vita individuale, ogni fragilità della creatura umana, ogni legame affettivo del desiderio. Il nascere e il morire sono le coordinate di un processo della vita umana, che le elabora e le vive in ogni evento e in ogni rapporto. Mettere a fuoco la serietà di questa correlazione, impone alla bioetica un respiro più ampio e un rigore più alto. Una tematica che è emersa in particolare nella seconda giornata del Congresso.
La bioetica, essa stessa, è un processo della conoscenza che accompagna il processo della vita. Sotto questa angolatura, potremo meglio inquadrare e comprendere le forme nelle quali questo processo è orientato – e anche dirottato – dalla pressione delle trasformazioni che segnano non l’epoca, come si dice, ma la stessa condizione umana comune. La bioetica non riduce la vita ai suoi casi estremi: considera tutta la vita un caso serio. Così pure tutte le età della vita sono un caso serio. E proprio per questo, è in grado di diventare un sapere propositivo e ispiratore della bellezza e della qualità etica dell’umano.
- Da questa angolatura, sembra possibile affrontare meglio anche l’interrogativo che – provocatoriamente – ho voluto porre in apertura del nostro Congresso. Dicevo che mi pare giunto il momento di dedicare nuovamente qualche riflessione di portata più radicale sulla semantica dell’idea di “vita” (e di vita “umana”, in modo molto specifico e concreto).
La nozione, in effetti, appare oggi falsamente intuitiva. Certo, si tratta di un significato, e di un orizzonte di senso, che devono necessariamente essere messi in campo contando sulla spontanea e tacita intesa degli esseri umani che ne fanno esperienza. Esperienza affatto universale e basilare, alla quale nessuno è sottratto. E tuttavia, sappiamo bene che l’assunzione generica del termine – proprio in conseguenza dell’impegno intellettuale che ha giustificato una specifica riflessione bio-etica, nel suo senso più ampio – ha le sue insidie e le sue complicazioni. Pensate soltanto al frequente ricorso all’idea di “qualità della vita”, come indicatore di valore che indica il senso e lo scopo dell’impegno individuale e collettivo alla ricerca di “migliori condizioni di vita”. Credo che tutti conosciamo bene a quali ambiguità rimane esposta questa semantica, in rapporto alla pressione di conformità della cultura del benessere, del progresso tecnologico, dell’aspirazione al godimento. Oppure, si pensi alla nozione di “vita degna di essere vissuta”, così frequentemente invocata come criterio dirimente per la giustificazione di orientamenti selettivi e sacrificali dell’esistenza, deprivata, ferita, o anche insopportabilmente vulnerabile.
Mi limito ora ad integrare questa focalizzazione, anche in seguito a molti acuti spunti che hanno toccato il tema, ormai strettamente correlato, della pervasività degli apparati strumentali, con l’ipotesi di dedicare analogo approfondimento al concetto di “tecnica”, in prospettiva specificamente bio-etica. La pura e semplice condanna della “tecnica”, sotto molti aspetti comprensibile, ci appare ormai anche generica e, infine, insoddisfacente. L’abilità nell’invenzione di mezzi e strumenti “utili” alla vita ci appare, dopo tutto, una qualità propria dell’intelligenza umana. Proprio la considerazione bioetica incalza il tema ad uscire dalla genericità: a quali condizioni lo strumento e l’utilità conservano il loro carattere ausiliario nei confronti del modo umano di vivere la vita e di prendersene cura? Non basta immaginare come e che cosa la tecnica salva dell’umano: è necessario giudicare anche che cosa distrugge dell’umano. La tecnica non è valutabile esclusivamente in rapporto al godimento dei “beni” che può procurare, ma deve passare al vaglio della “giustizia” dei rapporti che deve rispettare. Solo a questo punto è degna di considerarsi utile all’umano. Molti interventi del nostro Congresso hanno messo a fuoco la necessità di questa integrazione, tuttora normalmente trascurata.
- Se adottiamo queste linee di orientamento, emerse in vario modo dalla sensibilità sviluppata in questo incontro, cercando di renderle feconde alla luce degli importanti stimoli antropologici offerti dalle parole di papa Francesco, potremo riaprire veramente un nuovo orizzonte culturale, a vantaggio dell’umano comune.
Il pensiero cristiano deve riprendere l’iniziativa, ci ha detto il Papa. Noi tutti sappiamo che, anche negli ambienti intellettuali e professionali più secolarizzati, non manca la percezione dell’apporto – magari inconfessabile, ma nella realtà sperato – di un’intelligenza della condizione umana ispirata dal vangelo e dalla fede.
Si tratta anche di sapere quale parte siamo disposti a giocare per venire incontro alla tenacia dell’amore di Dio. Nelle parole del Papa è risuonata chiaramente l’indicazione della duplice “rimozione” che mette a rischio totale la serietà dell’impegno umano a riguardo della vita: l’alleanza dell’uomo e della donna, la riconciliazione delle generazioni. Il tratto originale dell’ispirazione che la fede porta dentro la nuova attenzione globale della bio-etica, prende vigore e concretezza proprio di qui. Che cosa pensiamo – diciamo, facciamo – per alzare il livello dell’alleanza fattiva dei maschi e delle femmine in ordine all’identificazione vincolante delle priorità umane della scienza, della tecnica, della qualità della vita? Quale pensiero possiamo mettere in campo per disinnescare la riduzione delle età della vita all’eterna adolescenza di Peter Pan e di Biancaneve, e riaprire il tema dell’unità del ciclo vitale dell’umano, in tutto l’arco dell’esistenza, che riserva le sue ricchezze migliori all’onore dei padri e delle madri, e alla trasmissione ai figli dell’ambizione di rendere la vita della comunità più bella di quella di ogni singolo?
L’unità dell’umano, l’unità degli umani, l’unità della famiglia umana, dunque, non sono più un tema estraneo per le scienze della vita. E l’umiltà nei confronti del mistero dell’umano – mai solo corpo-macchina, ma sempre anche spirito-sensibile – può e deve ridiventare comune ai professionisti del sapere. L’umiltà di questo riconoscimento favorisce l’amicizia dei saperi e degli umani, congiuntamente. E Dio benedice chi onora lo Spirito della vita, a qualunque tribù, popolo o nazione, appartenga.