È il tempo di tessere una nuova alleanza tra le generazioni
di Francesco Provinciali
Intervista esclusiva a Mons. Vincenzo Paglia, autore del libro di recente pubblicazione L’età da inventare. La vecchiaia tra memoria ed eternità (Piemme).
Mons. Paglia, nell’incipit del Suo libro Lei ricorda l’incontro con il Ministro della Salute Speranza al quale rappresentò il problema dell’abbandono degli anziani in epoca di piena pandemia. Il risultato fu questo incarico della Commissione istituita dal Ministro che Lei presiede (superando le remore delle “due rive del Tevere, da una parte lo Stato dall’altra il Vaticano”). Ci vuole raccontare come stanno procedendo i lavori di questa Commissione? Quali sono le problematiche messe a fuoco e quali gli obiettivi attesi?
La Commissione ha terminato il suo lavoro ed ha consegnato al governo le Raccomandazioni. Tra l’altro al termine del mio libro, il lettore potrà tenere in mano il testo delle Raccomandazioni stesse, che completano il percorso di lettura. Infatti l’età anziana è il frutto più maturo della nostra società. Siamo anziani grazie al progresso della medicina, dell’alimentazione, grazie ad una qualità della vita che ci consente di vivere più a lungo. In Occidente, beninteso, perché le disparità nell’accesso alle cure, alla salute, al cibo, ai servizi, nel mondo sono purtroppo fortissime e profondissime. Noi in Occidente viviamo di più, rispetto al passato, l’età media si è allungata. Ma per fare che cosa? Non basta vivere più a lungo, occorre vivere meglio, all’interno di un progetto di società. Altrimenti gli anziani vivranno certamente più a lungo ma come “scarti” della società. Lo abbiamo visto durante i mesi più duri della pandemia, con le decine di migliaia di anziani morti nelle case di riposo. Affinché questa esperienza drammatica non si ripeta dobbiamo prendere coscienza della presenza e del ruolo degli anziani e dobbiamo farlo una volta per tutte.
La sua vocazione ad occuparsi di questo tema ha radici lontane, dai tempi del Suo impegno nella Comunità di Sant’Egidio. C’è dunque una coerenza di pensieri e azioni tra ieri e oggi? Debbo confessarLe che la Sua Presidenza della Pontificia Accademia per la vita – che di primo acchito farebbe pensare agli albori della vita che nasce, ai piccoli, ai giovani, alle famiglie – trovo che abbia una attinenza persino logica per chi come Lei si occupa della vita nella sua interezza e lungo tutto il ciclo biologico dell’esistenza umana. In altre parole, possiamo dire che i soggetti più anziani fanno parte a pieno titolo della grande tematica della vita? Che il problema demografico del Paese non è solo nelle “culle vuote”- come evidenziato da una Ricerca dell’ISTAT- ma anche nell’emarginazione relazionale che l’età della vecchiaia soffre per definizione?
La risposta alla domanda è nelle cifre. In Italia la popolazione anziana – sopra i 65 anni – raggiunge il 23,4% del totale cioè stiamo parlando di 13,9 milioni di persone. L’Italia, ci dicono i numeri, dopo il Giappone, è il secondo paese al mondo per numero percentuale di anziani. È un cambiamento epocale. E colleghiamo questi dati con un’indagine della Università Cattolica di Milano, secondo cui il 7% degli uomini e l’83% delle donne tra i sessantacinque e i settantacinque anni si sentono “poco” o “per nulla” anziani. Insomma la condizione anziana è molto fluida e plurale, senza un riconoscimento sociale definito e univoco. Allora dobbiamo eliminare il pre- giudizio che la condizione di anziano equivalga a sofferenza e solitudine e cominciare a pensare che siamo davanti a una straordinaria opportunità di ampliare non solo la durata della vita ma anche – soprattutto – la qualità della vita. E gli anziani, tutti, portano alla società un “di più” di sapienza e di “vita”, appunto.
Insieme al Giappone l’Italia è il Paese che vanta la maggiore longevità. Eppure non basta vivere più a lungo: è fondamentale occuparsi della qualità della vita anche nella cd. “terza età”. Ora io trovo che ci sia una lenta deriva di espunzione degli anziani dal concetto di ‘pienezza esistenziale’. Certo servono RSA che funzionino, famiglie che considerino un vecchio in casa come una risorsa e non un peso. Ma in un mondo dove l’apparenza conta più della realtà essere “appartati” – come ci ricorda il filosofo Galimberti- non è un privilegio per ‘senatores’ ma l’anticamera della solitudine. È forse questo il male che oltre la malattia, oltre la pandemia, oltre l’essere socialmente ininfluenti fa soffrire più intensamente e crea nella persona anziana una condizione depressiva e di lento abbandono? Non a caso Gabriel García Màrquez scriveva che la morte non arriva (solo) con la vecchiaia, ma con la solitudine. È così?
Andrei un passo oltre la sua domanda. Per dire che noi stessi siamo il problema della vecchiaia. Noi anziani – e sono anch’io nella categoria – non dobbiamo sentirci dei residui della società. La vecchiaia è un’età della vita, tanto quanto le altre. Ha delle caratteristiche positive e altre negative. La maggior parte di noi anziani è in buona salute, coltiva degli interessi, moltissimi si dedicano alla famiglia ed ai nipoti. È la solitudine il pericolo maggiore per le persone anziane. Per questo serve tessere e ritessere una rete di relazioni. Per questo serve un continuum di assistenza che prenda in carico la persona anziana, lasciandola in casa propria finché è possibile, però all’interno di un sistema socio-assistenziale che tuteli la salute e apra alle relazioni interpersonali. La relazione è la migliore cura, a tutte le età, e soprattutto nella terza e quarta età.
Trovo che i miti del vivere oggi siano legati al senso dell’effimero. Anche di vite bruciate come se non avessero valore. Da questo punto di vista una persona anziana possiede un dono che trovo straordinario: l’essere depositario di una sorta di “ricapitolazione di tutte le cose”, come direbbe San Paolo, di quella dimensione- cioè – di distacco dove la fine abbraccia l’inizio, il “caput” incontra l’”archè”. “Ho fatto la mia apparizione sulla scena della vita con l’ordine di ritirarmene, sto recitando la mia parte come tutti i miei simili: poi non mi rimarrà che sparire”: sono parole del filosofo e predicatore Jacques Benigne Bossuet, vissuto nel XVII secolo e credo possano essere usate rendere ciò che spetta a coloro che hanno attraversato i marosi di una vita – conservando in dono della testimonianza. Il bene più prezioso per una società che voglia dirsi civile è dunque la saggezza che alberga nell’animo delle persone anziane?
È il tempo di tessere una “nuova alleanza” tra le generazioni. Oggi in Italia per la prima volta nella storia abbiamo quattro generazioni che vivono insieme: i bambini, i giovani, gli adulti e gli anziani. Gli anziani (nonni e bisnonni) non devono essere un peso, perché in tanti casi si tratta di persone valide, capaci di badare a se stesse, lucide, con tanti interessi e tanta esperienza di vita. E comunque sono sempre da “onorare”, come dice il Comandamento, anche quando “perdono il senno”, aggiunge il libro della Bibbia che si chiama Siracide. E indispensabile, piuttosto, che si avvii il dialogo tra le generazioni per creare una “nuova alleanza”. Tutti siamo portatori di una nuova visione della vita, nel dialogo, nello scambio, nell’arricchimento reciproco. Che è l’antidoto migliore al senso dell’effimero!
Dopo la scoperta (intesa come valorizzazione, investimento, invenzione) dell’infanzia (il 900 si aprì come secolo dedicato all’infanzia ma abbiamo visto e vediamo ancora oggi quanto sia sovraesposta al male e alle violenze, questa tenera età) Lei parla della necessità di “inventare” la vecchiaia: apprezzo leggendo i Suoi scritti la profonda formazione culturale e ancor più il Suo grande senso pratico, la capacità di declinare la teoria nella pratica. Ci offre , Monsignore, alcune piste da percorrere per dare concretezza a agibilità, accesso, pienezza di senso e di stili di vita a questo concetto importante di “re-invenzione” della vecchiaia?
La Commissione ha presentato al Primo Ministro Mario Draghi il risultato del lavoro svolto, la Carta dei Diritti degli Anziani e dei Doveri della Società. La Carta indica princìpi fondamentali e diritti che possono trovare un riconoscimento formale e intende offrire indicazioni operative ed organizzative ad istituzioni e operatori chiamati a prendersi cura delle persone anziane. Il nostro documento è diviso in tre parti.La prima è denominata «Per il rispetto della dignità della persona anche nella terza età» ed elenca i diritti delle persone anziane i quali, pur non essendo esplicitamente citati in Costituzione, secondo la Commissione per la riforma della assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana trovano fondamento sia nell’articolo 2 e sia nell’art.3. La seconda parte, «Per un’assistenza responsabile», riguarda sia i diritti delle persone anziane sia i doveri dei medici, degli operatori sanitari e delle istituzioni relativamente ai percorsi di cura e alle modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria. La terza e ultima parte, Per una vita attiva di relazione, comprende i diritti delle persone anziane ad avere una vita in convivenza, conservando la loro possibilità di accedere a servizi culturali e ricreativi, nonché di manifestare il loro pensiero e di accrescere la loro cultura, pur in presenza di limitazioni psicofisiche, e sottolinea il dovere delle istituzioni e della società di evitare nei loro confronti ogni forma di isolamento e reclusione. La Carta punta inoltre a facilitare la conoscenza per le persone anziane dei loro diritti fondamentali nonché dei doveri che gravano su quanti entrano in relazione con loro. Come dicevo, il testo integrale si può leggere al termine del libro, come appendice, in modo che ognuno potrà farsi un’idea del lavoro svolto!
L’umanità – tra pandemia che si protrae, distruzione della natura, conflitti etnici, problemi geopolitici e geoeconomici- sta cercando nuove strade di sopravvivenza. Anche Papa Francesco se ne è occupato, peraltro con grande acutezza di analisi, specie nell’’enciclica “Laudato sì”. Trovo che il terzo millennio abbia conservato irrisolti due grandi temi ereditati dal 900: la graduale dissoluzione dell’identità personale accentuata dalla globalizzazione e la sudditanza al “pensiero calcolante” dove gli interessi e non gli ideali sono il motore delle azioni umane. L’uomo avverte un senso di inadeguatezza perché gli manca sempre qualcosa per sentirsi appagato, la competizione genera processi di espunzione sociale: resiste chi è utile e fino a quando lo è. Chiaro che un anziano che non lavora più, che deve sopravvivere con una pensione non sempre sufficiente ad affrontare i problemi dell’età e i suoi bisogni diventa – in senso negativo – un ‘predestinato’. Fuori dal lavoro, (spesso) fuori dalla famiglia, (sovente) solo finisce per immedesimarsi in un processo di marginalizzazione che lo rende precario (dopo una vita di lavoro) e soccombente. Ma c’è di più: non si fa altro che parlare di digitalizzazione, riconversione tecnologica, uso pervasivo di hardware e software sempre più complessi. Perché in questa “visione” edulcorata di un mondo (in realtà a un tempo facilitato ma reso schiavo dall’evoluzione della tecnocrazia) una persona anziana non è messa in condizione di partecipare (“partem capere”) a questi processi evolutivi? Tutto diventa complicato: i codici alfanumerici, le app, il web, lo SPID, ora il cambio dei televisori. La cd. “cultura dello scarto” per usare le parole di Papa Francesco: ciò che non si usa si getta. C’è un “Garante” per tutto: perché non si istituisce un “Garante per la vecchiaia serena”?
Le dirò che a mio avviso sono le nostre famiglie, tutte, e la società nel suo insieme che devono garantire una vecchiaia serena. È oggi necessario, a mio avviso, un ampio e convergente sforzo collettivo perché l’allungamento della vita – la facilità con cui arriviamo e spesso superiamo gli Ottanta ed i Novanta anni – deve portarci a riempire di contenuti questo tempo della vita umana. Non può essere uno spazio svuotato di attività, quasi anticamera della fase ultima, della morte. Ci deve essere una socialità, tempi di vita e di relazione, tempi di attività, e una spiritualità, per convergere verso una visione che dia serenità e benessere alle persone anziane. Per questo come dicevo un elemento fondamentale è la “nuova alleanza” tra le generazioni. Ma non basta. È tutta la società che deve impegnarsi per valorizzare gli anziani, perché gli anziani sono tutti noi, in quanto andiamo tutti verso la prospettiva dell’età che avanza.
La paura di invecchiare diventa a un certo punto la paura di morire. In quel momento dell’esistenza affiorano le cose fatte, quelle tralasciate, quelle perdute per sempre. È una sensazione che si percepisce ma sovente rimane inespressa, come “tristezza interiore”. Uno si guarda indietro e fa inevitabilmente un bilancio della propria vita. Sarebbe bello poter dire tutti: “ho combattuto una buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Solo San Paolo ha pronunciato queste parole. Parlandone con il rispetto che merita, è possibile educarci alla rassegnazione? O davvero avvicinandosi la fine dell’esistenza terrena si finisce per auto-percepirci – per usare le parole dello scrittore Jean Amèry – come protagonisti di un naufragio, invisibili e senza illusioni, immaginando il futuro solo come negazione?
Nei testi più antichi della Bibbia la morte più che un castigo era considerata come la normale conclusione dell’esistenza. La fine ideale della vita si realizzava nella vecchiaia: una vita lunga come quella dei patriarchi, da Abramo e Isacco, o dei re, come Davide, che chiudevano la loro esistenza «vecchi e sazi di giorni» (Gen 25, 8; 35, 29; 1 Cr 23, 1), o la fine serena e soddisfatta di Giobbe che, dopo aver superato le prove della vita, «visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni» (Gb 42, 16- 17). Il tema della morte, dunque, non è un tema “finale”, rispetto a cui augurarci di non dovercene occupare se non proprio agli sgoccioli della vita. È, in realtà, il tema di fondo della vita, di tutta la vita, nelle sue diverse età: da bambini, da adolescenti, da giovani, da adulti e da anziani. Il senso di trascendenza che abita il cuore (trascendere se stessi, il proprio limite e quello altrui), non trova una sua ragione anche nella morte? Ne sono convinto: se tutti, credenti e non credenti, potessimo concentrarci seriamente sul legame che ci accomuna – dalla bellezza del nostro venire alla luce e per tutte le età della vita, sino alla fatica del nostro congedo – nella sfida del senso della vita e del controsenso della morte, l’intera nostra civiltà sarebbe diversa. Le nostre angosce profonde, e le semplificazioni con le quali cerchiamo di risolverle, creerebbero fra di noi ben altre complicità. Purtroppo, molto cristianesimo moderno si è rassegnato a investire i valori della vita eterna nell’impegno per il benessere della vita presente, caduca, corruttibile e mortale, per rendersi credibile, appunto, come parola di vita. Un “dirottamento” non privo di rischio. È vero che il Vangelo suscita umanesimo, ci mancherebbe altro! Ma per la fede questa vita è il seme, non la fioritura. Il Concilio Vaticano II scrive: «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore» (Gaudium et spes, 18). E allora senza il pensiero di una destinazione eterna, la vita sulla terra perde peso, passione e sapore. La partita decisiva non è fra il cristianesimo e la civiltà, o tra la fede e la ragione. La partita è fra l’incredulità e la speranza, l’indifferenza e l’amore.