Funerale di don Fabio Leonardis
Care sorelle e cari fratelli,
ci ritroviamo in questa domenica di fine agosto in cattedrale per consegnare nelle mani del Signore don Fabio, figlio di questa Chiesa e fratello carissimo a noi tutti. Quante volte siamo entrati assieme in questo luogo! Quante riflessioni, dibattiti, idee, sogni per rendere la cattedrale non solo bella, ma viva nelle sue mura e in tutti i suoi particolari! Oggi, don Fabio vi entra per l’ultima volta. Ha attraversato quella porta, la prima opera che abbiamo pensato e realizzato nel 2000, l’anno del Giubileo: la porta della risurrezione. Ho voluto accoglierlo, come tante altre volte è avvenuto. Oggi però anche le mura sembrano rendersi conto che è l’ultima volta che vedono questo prete piccolo di statura, esile, gracile, eppure con un amore così straordinario per questo luogo santo da distrarlo anche dalle cure per il suo corpo. Sì, questa mura oggi sono meste; non solo le mura, ma tutto: il pavimento, il presbiterio, la navata, l’abside, la volta, la facciata. Tutto è stato amato e pensato anche da don Fabio. E lo scopo era chiaro: far parlare questo tempio della straordinaria fede che lo sostiene da secoli. Ed è proprio questa fede che rende consapevoli persino le mura che se per don Fabio questa è l’ultima tappa della sua vita terrena è però per lui la porta bella che gli apre il cielo. Anche la cattedrale, commossa assieme a noi, si piega per avvolgere di amore questo figlio che si è speso per renderla bella, luminosa, eloquente di fede. Potremmo dire che è mesta, ma orgogliosa di questo figlio; mesta, ma lieta di presentarlo al Signore.
Nell’ultimo incontro che ho avuto con lui mercoledì scorso, in ospedale, dove è stato curato con cura ed amore e ringrazio di cuore tutti coloro che gli sono stati accanto, era ormai senza forze e parlava a stento. Mi ripeteva che non voleva morire. E gli rispondevo che non lo volevo neppure io – aggiungendo che tra l’altro mi avrebbe messo in mezzo a una strada, e lui sorrideva – ma soprattutto non lo voleva Gesù. Però potevamo unirci alle sue parole: “Nelle tue mani, o Signore, affido il mio spirito”. E don Fabio aggiunse: “gli do tutto il mio spirito”. E’ il senso di questa celebrazione: deponiamo nelle mani di Dio don Fabio e tutto il suo spirito. In verità, è il Signore che con questa santa liturgia lo strappa dalla morte e lo conduce nella sua dimora di pace. Sì, per noi credenti, la morte – culmine del potere del male che cerca di annientarci – è come bloccata nella sua corsa. Gesù infatti irrompere con forza e ci strappa dalle mani del Maligno. Quante volte ne abbiamo parlato con don Fabio, quando discutevamo il dipinto per la controfacciata della cattedrale! Gesù risorto irrompe nel centro della scena e con la sua rete di amore ci libera tutti dall’abisso della morte e ci porta in alto, verso la santa Gerusalemme. Don Fabio è in quella rete, portato in alto dal Risorto. Per noi resta un dipinto, per lui è ora realtà.
Ho voluto scegliere per questa celebrazione il Vangelo di Zaccheo: ci fa intuire qualche scintilla di luce del questo mistero che don Fabio sta vivendo: l’incontro con Gesù. L’ha desiderato per tutta la vita, prima inconsapevolmente e poi più chiaramente. Nell’incontro di oggi però Gesù non gli dice, come a Zaccheo: “scendi subito, perché oggi debbo fermarmi a casa tua”; piuttosto: “Scendi subito, perché oggi tu devi venire a casa mia”. Sì, scendi “subito”. Davvero don Fabio ci è stato strappato troppo presto! La violenza del male, che è sempre cieco, questa volta è stato precipitoso. Lo avremmo voluto avere ancora con noi, per l’amicizia, per la sua collaborazione. Sappiamo però che la morte, se da una parte sembra chiudere una storia umana, dall’altra chiama il Signore ad aprire la porta verso l’alto, verso l’eternità. Del resto, l’intera vicenda terrena di don Fabio è stata segnata da questo desiderio di andare oltre, di non restare prigioniero della banalità, di vivere una vita piena. Me lo ripeteva il mese scorso mentre mi raccontava il suo passato.
Potremmo dire che ha cercato sempre, come Zaccheo, di salire più in alto. Per molti anni non comprendeva bene cosa fosse questo suo anelito. Non gli era ancora chiaro che aveva un nome: Gesù. Ed ha salito tanti alberi sbagliati, che tali non erano, e ha trovato rovi, ortiche e spine che hanno segnato il suo corpo in maniera grave. Ma nel cuore, nel suo spirito, c’era una scintilla che continuava ad ardere. Finché un giorno salì, per caso, un po’ come Zaccheo, su un albero vero. Racconta lui stesso che, spinto da curiosità non certo dalla fede, si recò in Piazza San Pietro. Era il 22 ottobre del 1978, il giorno dell’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II. E udì quello straordinario invito: “Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo”. Scrive don Fabio: “Io fui colpito così tanto dalla dolcezza della sua voce e da quelle parole, che cominciai a piangere ininterrottamente”. Non comprese subito quel che gli era accaduto. Ma questa volta il Signore, attraverso Giovanni Paolo II, lo aveva guardato e gli aveva toccato il cuore. Non dimenticò più quella voce. E più tardi lo scrisse a Giovanni Paolo II che lo ricevette e lo abbracciò. Durante questo tempo di ricerca un sacerdote gli diede una Bibbia. Mi ha raccontato – lo ha anche scritto – che le lettere della Bibbia man mano che la leggeva gli saltavano dalle pagine e gli riempivano gli occhi, il cuore, la mente. Era come stordito da quelle pagine. E gli accadde quel che avvenne a Zaccheo dopo aver parlato con Gesù. Fabio decise di restituire la sua parte quando si trovò davanti ad una ragazza appena travolta e uccisa da un’auto alla stazione Termini di Roma. Voleva come ridarle la vita. In quel momento decise di farsi prete: “l’unico modo per ridare la vita a qualcuno – pensò –è rinunciare alla tua”. Si recò dai benedettini di San Paolo; bussò alla porta e parlò con l’abate: “Cerco Dio!”, gli disse. Mentre mi raccontava queste cose i suoi occhi si inumidivano – forse per la nostalgia forse per commozione certo lasciava trasparire l’amore – e subito, com’è d’uso nei monasteri, i monaci presenti gli baciarono i piedi. Sì, vengono baciano i piedi a chi cerca il Signore. Che splendida lezione a noi che cerchiamo solo noi stessi e le nostre soddisfazioni! Non era però quella la sua via. E venne a Terni per studiare, ma visitava le chiese incuriosito, mi ricordava don Antonio. Incontrò prima mons. Quadri e poi mons. Gualdrini ed entrò nel Seminario Francese a Roma. Il 22 ottobre del 1988 – esattamente dieci anni dopo piazza san Pietro – fu ordinato sacerdote; ma la data fu scelta perché il 22 ottobre era l’anniversario dell’ordinazione di mons. Gualdrini. Anche da prete la sua ricerca di Dio non era terminata. Certo, ognuno di noi cerca il Signore con i tratti della sua storia passata, delle sue abitudini, dei suoi limiti, del suo carattere, e chi non ricorda i tratti burberi di don Fabio. Magari anche con san Pietro ci sarà qualche problema in paradiso! La sua storia di prete la consociamo tutti. La conoscono i fedeli di Narni, di Papigno, di Lugnola e infine quelli della piccola chiesa di santa Maria degli Spiazzi che ha curato con amore e con dedizione e che questa mattina è stata meta di un ininterrotto pellegrinaggio. Era divenuta la piccola chiesa del suo orgoglio.
Ho voluto ricordare seppure brevemente i suoi anni passati perché gettano un fascio di luce sula vita di don Fabio che le vicende della storia lo hanno portato nella nostra Diocesi facendolo partire dalla sua terra di Abruzzo, ove tornerà per esservi sepolto. Care sorelle di don Fabio, grazie per questo fratello. E’ stato un dono per questa Chiesa diocesana. Senza dubbio resta un vuoto. Vorrei però che il suo spirito, che la sua ricerca di Dio, e quindi la ricerca del Bello, del Vero, della Luce, del Colore, restasse con noi. Certo, la sua presenza segna un incredibile numero di opere che hanno reso la nostra Diocesi un laboratorio di arte sacra noto non solo in Italia. La stessa città di Terni ne ha avuto uno straordinario beneficio. Lo sapete bene voi, cari amici artisti. Assieme a don Fabio abbiamo vissuto un’avventura nuova e straordinaria. Non era solo una questione di estetica, ma di ricerca alta, religiosa. Era l’impegno di un prete che dava al suo ministero apostolico una caratura tutta particolare. Il suo impegno in questo campo infatti era diretto interamente ad esprimere il primato di Dio nella vita umana. Negli ultimi tempi, anche durante la malattia, non ha cessato di impegnarsi per i lavori che restano ancora aperti. L’ultima volta che abbiamo visitato la Chiesa di Borgo Bovio mi disse: “non so se la vedrò finita!” Gli risposi che l’avremmo inaugurata il 22 ottobre per i suoi venti anni di sacerdozio. E mi parlava di come aveva voluto il volto e il manto di Maria, pieno di amore e di misericordia per la gente di quel quartiere che aveva appositamente incontrato con il pittore Cinalli. E poi i volti dei santi della misericordia che devono circondare di forte serenità coloro che si recano nella cappella feriale. E l’impiego per la prima volta dell’acciaio per l’arredo: quanti studi con Ceccobelli! E non ha dimenticato la Chiesa di Campomicciolo. Mi ha confidato qualche settimana fa che ha sognato l’impianto figurativo e di averne già parlato con Rainaldi. Sì, il suo spirito vive in tutte queste opere, vive nel museo diocesano: a lui vorrei dedicare un’apposita sala, come pure vive negli archivi e nelle biblioteche di Terni di Narni e di Amelia che sono stati riordinati. E straordinaria fu la prima avventura con la Chiesa di Portoghesi e il ciclo pittorico di Di Stasio nella Chiesa di Santa Maria della Pace e l’opera in cattedrale con Borghi e i due pittori russi.
Ma permette care sorelle e cari fratelli di dare almeno un cenno a questi ultimi mesi della sua vita. Don Fabio sapeva bene quale fosse la gravità del male che da anni lo aveva ferito. E lo ha affrontato da credente e da prete. Prima di entrare in ospedale ha chiesto l’unzione degli infermi e l’ha ricevuta da don Carlo Romani con commovente devozione. Intuiva che si avvicinava il giorno del grande incontro, quello che lo aveva spinto a bussare al monastero di San Paolo a Roma. Ed è apparso ancor più chiaro a noi, non di rado pigri nel leggere nel profondo del cuore di chi ci sta accanto per fermarci solo alle apparenze spesso devianti, quell’anelito spirituale, quel desiderio di Dio che aveva segnato e cambiato la vita di don Fabio. Caro mons. Guladrini, grazie per averlo ordinato prete e per averlo incaricato ai beni culturali. Carissimi sacerdoti, cogliamo da questo confratello la sua ansia per una Chiesa bella e capace di attrarre anche i lontani mentre educa alla bellezza i vicini: credo sia una piccola eredità che ci lascia e che non dobbiamo lasciar cadere. Siano le nostre chiese tutte ancora più belle! E con voi, cari amici del mondo dell’arte, vorrei non disperdere quel fuoco che don Fabio ha acceso in questa nostra diocesi: è stata un’esperienza innovatrice che va custodita e continuata, arricchisce noi e la città.
Care sorelle e fratelli tutti, oggi don Fabio è stato chiamato da Dio a scendere dall’albero della sua vita terrena per essere accolto nella Gerusalemme del cielo. Ma i suoi segni, il suo spirito resta accanto a noi e in certo modo ci avvolge. Questa santa liturgia è certo segnata dalla mestizia per il distacco ma è anche piena di festa perché questo nostro fratello resta ancora con noi. Ai tuoi fedeli Signore la vita non è tolta ma trasformata. Grazie Signore per averci dato don Fabio. Ora lo consegniamo a te. Egli ti viene incontro accompagnata da Maria, tua Madre, che don Fabio in tanti modi ha cantato nelle diverse chiese, e dalla sua bocca esce lo stesso suo canto: “L’anima mia magnifica il Signore, perché grandi cose ha fatto a me l’onnipotente”. Lo scrisse a Giovanni Paolo II nella lettera inviatagli nei giorni della sua ordinazione sacerdotale. Lo canta oggi, giorno del suo ingresso in paradiso: accoglilo Signore tra le tue braccia, stringilo al tuo cuore e presentalo ai santi e alle sante del cielo perché grande sia la sua gioia, ora e per sempre.
(foto di Enrico Valentini)