Introduzione al convegno su Santità e Carità

Introduzione al convegno su Santità e Carità



Vincenzo Paglia


 


Vescovo di Terni-Narni-Amelia


 


 


Santità e carità nella storia e nell’oggi delle Chiese


 


 


Questo convegno su “Santità e carità nel cristianesimo d’Oriente e d’Occidente”, mentre manifesta attraverso alcuni testimoni la forza dell’amore di Dio, offre altresì indicazioni preziose sia per il cammino di amicizia fraterna fra le Chiese sia per il compito grave ed esaltante che esse hanno in questo tempo. Ripercorrere l’itinerario della carità nel corso dei duemila anni di cristianesimo, seppure a grandi linee, significa far emergere la preziosità di un’energia che deve essere trasmessa al nuovo millennio. La carità, ossia la testimonianza dell’amore gratuito e disinteressato di Dio, in particolare nella sua manifestazione verso i poveri, costituisce il segno più evidente della presenza di Dio nel mondo contemporaneo. Ancora oggi, a coloro che chiedono se è giunto o no il Regno di Dio, noi cristiani dovremmo rispondere, come Gesù ai discepoli del Battista: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella” (Lc 7, 22).


 


L’amore per i poveri, come si vede già da questa pagina evangelica, è un tratto che specifica l’identità cristiana. Potremmo dire che, assieme alla preghiera e alla liturgia, ne costituisce una caratteristica distintiva. E si deve subito chiarire che l’amore per i poveri non si riduce a un complesso di attività sociali, anche se le opere di carità delle Chiese presentano una innegabile valenza di tipo sociale. L’amore per i poveri è anzitutto espressione della vita spirituale del discepolo di Gesù. Nell’ascolto della Parola di Dio e nella preghiera la carità trova la sua fonte e il suo alimento primario. E mi piace sottolineare che questo nostro convegno è nato appunto nell’orizzonte di quel legame spirituale fra preghiera e carità che costituisce uno dei tratti centrali della vita della Comunità di Sant’Egidio.


 


Per noi è particolarmente significativo interrogarci sul patrimonio di santità e di carità del cristianesimo insieme a uomini di Chiesa e di cultura che sono testimoni di una grande tradizione cristiana, com’è quella russa. Durante gli ultimi anni ho potuto assistere con gioia alla rinascita della vita ecclesiale della Chiesa russa dopo decenni di persecuzione, dapprima cruenta e poi di rigido controllo da parte del potere sovietico. Nel corso di questo travaglio si è potuto consolidare un rapporto di rispetto, di reciproca stima e di amore fraterno con la Chiesa ortodossa russa a partire dalla metà degli anni ’80. Nel cuore di questa storia di amicizia fra il Patriarcato di Mosca e la Comunità di Sant’Egidio è nata l’idea di questo convegno. Sono convinto che questi giorni saranno una tappa ulteriore di questo itinerario e un’occasione significativa e feconda di incontro fraterno e amicale. E mentre sono lieto per la presenza di voi tutti esprimo anche i sentimenti di gratitudine a Sua Santità il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Aleksij II, che ha accolto con benevolenza la proposta del nostro convegno che oggi vede il suo inizio.


 


 


 


La centralità dell’agape


 


 


L’assenza di ricerche storiche adeguate rende difficile delineare l’itinerario della “carità” nel corso dei due millenni di cristianesimo. Ma, seppure orfana di storia scritta, la carità è ricca di testimoni che per secoli e secoli hanno segnato la vita di piccoli e di grandi, di umili e di potenti, di borghi e di città. La carità inizia a muovere i suoi primi passi con Gesù di Nazareth (in verità, bisognerebbe andare quasi due millenni addietro, quando Dio scese a liberare il suo popolo schiavo in Egitto: è lì che va collocato il primo passo della carità storicamente rivelata).


 


Il Nuovo Testamento usa il termine greco “agape”, impiegato, invece, pochissimo dalla cultura greca che preferiva i termini “eros” e “philia”. Con “agape” si introduceva una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (“eros”) e che nemmeno semplicemente si rallegra della sua presenza (“philia”), ma che, appena concepibile dagli uomini, trova il suo modello culminante nel calvario di Cristo: amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori di ogni reciprocità. Con questo termine, perciò, che esprime la radicalità più assoluta, si può persino sintetizzare tutta la vicenda biblica: Dio “scende” sulla terra per amare gli uomini sino alla fine. In tal senso l’agape non viene dagli uomini ma da Dio: scende dall’alto perché è Dio stesso. San Giovanni, infatti, afferma: “Dio è amore”. Il cristianesimo – in questo si differenzia da altre fedi – più che religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo, è la religione del Dio-uomo, della Divinoumanità. La kenosi di Dio, Gesù crocifisso, è l’esito paradossale ma necessario di questo itinerario. Ha scritto un filosofo religioso russo, Semiòn Frank: “L’idea di un Dio disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze umane e cosmiche, l’idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea possibile, la sola ‘giustificazione’ convincente di Dio”.


 


Per questo l’agape, cuore della vita del credente, è superiore a tutte le virtù. Non c’è nulla al disopra: né la profezia della tradizione ebraico-cristiana; né l’ineffabile lingua degli angeli; e nemmeno la speranza; e neppure la conoscenza, la quale in questo mondo è così misera sì che conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”, come scrive l’apostolo Paolo. “La conoscenza effettiva della Verità – ha scritto padre Florenskij – è nell’amore e non è concepibile che nell’amore. Viceversa, la conoscenza della Verità si manifesta come amore”. L’amore è superiore persino alla fede. Nel Vangelo di Matteo, Gesù ha detto: “Se avrete fede quanto un granellino di senape potrete dire a questo monte spostati da qui a lì, ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile”. E San Paolo con un incredibile capovolgimento: “Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla”. Tutto passerà, anche la fede e la speranza. Al termine resterà solo l’amore.


 


C’è già tutto nell’amore. Per questo non lo si possiede mai pienamente. L’amore è sempre oltre. E perciò mentre lo si possiede lo si deve continuamente anche cercare. L’amore è Spirito, e lo Spirito soffia dove vuole, non può essere posseduto. Si può solo ricevere dall’alto. Qui sta la radice dell’amore cristiano. Un amore che si manifesta nella duplice forma dell’esperienza mistica e del servizio a tutti a partire dai più poveri e deboli. E’ lo stesso identico amore che trova la sua massima declinazione nelle pagine evangeliche e la sua piena incarnazione in Gesù di Nazareth.


 


 


 


L’agape nella prima comunità cristiana


 


 


In tale contesto si staglia come una profezia per l’oggi l’immagine della prima comunità cristiana che fece dell’accoglienza ai poveri uno dei cardini della sua vita. Venti secoli di storia ci dicono che ogni qualvolta i cristiani si sono allontanati dal Vangelo hanno anche dimenticato i poveri. E, nei grandi momenti di ri-forma (quando cioè le comunità cristiane hanno voluto riprendere con chiarezza i tratti evangelici) sempre vi è stata una vigorosa riscoperta dei poveri. Nella prima comunità cristiana il programma di carità non derivava da analisi o da progetti, ma direttamente dal Vangelo. L’unità della fede trovava la sua espressione diretta e naturale nella condivisione dei beni. Il termine usato dal testo lucano è koinonia, ossia “unione fraterna”, “comunione” (il termine è sconosciuto nei Vangeli, e appare negli Atti per la prima volta). E dalla “comunione” è nato l’impegno della carità e della condivisione, che non a caso trovava la sua più alta realizzazione nella “agàpe”, intesa qui come “cena del Signore”.


 


Essa manifestava l’avvento degli ultimi giorni attraverso la testimonianza della vita comune dei discepoli. La narrazione degli Atti non riporta una distinzione netta tra la cena del Signore e il pasto preso in comune, sottolinea anzi la loro connessione (2, 46). Non c’è dubbio che molti poveri di Gerusalemme trovarono in questi pasti il loro principale mezzo di sostentamento. La pratica di celebrare assieme i due momenti si diffuse rapidamente al punto da divenire uno dei segni distintivi della comunione cristiana. Ecco perché Paolo intervenne con durezza quando in tali assemblee si continuava la disuguaglianza tra chi si nutriva con abbondanza del proprio e chi era lasciato nella fame perché non poteva portarsi nulla. Si negava nei fatti la comunione che la cena voleva significare. Il problema non era aiutare chi era nel bisogno, bensì realizzare una fraternità segno dell’unica paternità di Dio. Nella cena i poveri sedevano alla stessa mensa perché partecipi della stessa fede. Non erano estranei ma familiari. E’ qui la novità evangelica dell’amore per i poveri.


 


Le prime comunità cristiane conoscevano bene l’insegnamento di Gesù sul denaro, sulle ricchezze e sull’amore per i poveri. L’episodio del giovane ricco, riportato dai tre Sinottici, divenne centrale nel processo della conversione cristiana: “Vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Sequela e amore per i poveri davano sostanza alla conversione. La Lettera di Giacomo dedica ben tre dei suoi cinque capitoli al problema del rapporto tra ricchi e poveri: “Una religione pura e senza macchia, gradita a Dio nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (1, 27).


 


Uno degli esempi più chiari dell’attività di carità della prima comunità cristiana lo troviamo nell’episodio della distribuzione quotidiana di soccorsi alle vedove (Atti 6,1-6). Esse costituivano un problema particolare per la giovane comunità perché, oltre a quelle native della città, vi erano le vedove provenienti da altri paesi, attratte da Gerusalemme per motivi devozionali o di sostentamento. Nella distribuzione quotidiana, di cui erano responsabili gli stessi apostoli, venivano però trascurate quelle provenienti dalla diaspora, ebree ma di lingua greca, forse perché le offerte erano destinate ai poveri di Gerusalemme. Gli ellenisti (ebrei della diaspora) ritenevano giustamente inaccettabile e fortemente discriminatoria questa prassi. Gli apostoli, prendendo spunto da questa vicenda, riorganizzarono tutta l’attività assistenziale della comunità. Potremmo dire che dopo un inizio spontaneo e un susseguente impegno caritativo più confuso, tanto da ingenerare malumori, l’assistenza ai poveri ricevette una sua prima organizzazione. Siamo ancora ai primi passi della vita della prima comunità di Gerusalemme (questi fatti accadono negli anni 30-36) ed è singolare che, per Luca, la prima forma di corruzione della comunità cristiana rispetto all’ideale primitivo non riguardi la dottrina e neppure la morale, bensì il servizio ai poveri.


 


La carestia degli anni 46-48 fu una ulteriore prova per la giovane comunità cristiana, ormai abbastanza numerosa anche per la massa di poveri che avevano aderito alla fede cristiana. La sola vendita dei beni fu palesemente insufficiente per venire in aiuto a tutti: in più si aggiunse il notevole numero di cristiani fatti prigionieri nelle prime persecuzioni compiute dagli ebrei. Al loro sostentamento doveva pensare la comunità cristiana. In questa occasione si organizzarono i primi soccorsi dalla comunità di Antiochia verso la comunità di Gerusalemme. A Paolo, che tornava per discutere con gli anziani la sua posizione circa l’osservanza della legge, fu chiesto di “ricordarsi dei poveri” (Galati 2,10). E subito organizzò tra le comunità da lui fondate una colletta, perché attraverso la carità apparisse la genuinità del suo Vangelo annunciato ai gentili. La loro carità, frutto della predicazione di Paolo, era segno della genuinità della fede.


 


La narrazione della vita delle prime comunità cristiane, accolta nel canone come parola rivelata, divenne non solo esempio da imitare ma una energia di carità per le comunità successive. Quelle pagine restano un lievito che fermenta la coscienza delle comunità cristiane nel corso dei secoli. Si potrebbero applicare alla storia della carità cristiana le parole di Gesù ai discepoli: “Vedrete cose ben maggiori di queste!” Ed in effetti tutta la storia del cristianesimo è legata dal filo rosso della carità, dalla commozione sui poveri concepiti non come estranei su cui piegarsi ma come familiari, fratelli di Gesù e perciò membri a pieno titolo della comunità.


 


 


 


La carità nel primo millennio


 


 


 


Dopo i primi passi, la carità cristiana ha cercato le sue forme organizzative, ha avuto i suoi protagonisti e le sue prime realizzazioni. Gli interventi, teorici e pratici, dei grandi Padri Cappadoci, Basilio, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazanzio, cui è da aggiungere il Crisostomo, hanno come fondato una sorta di “ordo charitatis”. Si deve a loro una prima felice sintesi, appunto, teorica e pratica, dell’intervento della Chiesa per i poveri. E’ dall’Oriente che l’Occidente riceve la fede e la prima organica testimonianza della carità. Ricordo appena le roventi parole di Basilio sull’obbligo dell’aiuto ai poveri, un obbligo che riguardava anche i poveri verso coloro che stessero peggio di loro. Fu questo santo vescovo a creare la prima città dei poveri, chiamata appunto “Basiliade”. Suo fratello, Gregorio di Nissa, riprese l’impegno di Basilio e ripropose con vigore l’uguaglianza originaria tra tutti, affermando: “il mio e il tuo sono parole funeste che non esistevano all’inizio”. La dottrina di Crisostomo sulla carità e l’impegno personale in favore dei poveri erano ben noti ai suoi contemporanei. Restarono famose le sue 21 omelie tenute durante un periodo di sedizione a causa dell’aumento delle tasse ad Antiochia. La cattedrale, ove il vescovo lo chiamò a predicare, era gremita. Dopo le prime omelie solo i poveri riempivano la chiesa, i ricchi disertarono in massa.


 


I vescovi successivi presero esempio da questi giganti della carità. E non a caso il vescovo, nei secoli successivi, venne chiamato “defensor civitatis et pater pauperum”. E’ bella la seguente testimonianza medievale: al forestiero entrato in città che chiedeva dove fosse il vescovado, gli fu risposto: “basta che segui i poveri, troverai la casa del vescovo”. Dopo i vescovi furono i monaci a prendere con maggiore energia il compito di curare i poveri, i deboli, i malati, i pellegrini. Tutte le loro Regole prevedevano la presenza dei poveri come parte integrante della vita monastica: l’ospite era trattato come Cristo. Nel primo millennio la carità e il suo esercizio accomunò robustamente la cristianità sia in Oriente che in Occidente.


 


 


 


 


 


 


 


La carità nel secondo millennio


 


 


C’è da dire tuttavia che il filo rosso della carità ha attraversato anche la storia delle Chiese nel secondo millennio, come ho avuto modo di approfondire nei miei studi sulla povertà. In verità le mie ricerche sono state rivolte soprattutto all’Occidente. Questo convegno, per quanto è a mia conoscenza, è tra i pochi tentativi di coniugare assieme, Oriente e Occidente, nella vicenda della carità verso i poveri. Nell’Europa occidentale, all’inizio del secondo millennio, fu proprio la carità a ridare vigore ad un cristianesimo infiacchito. Ormai, né i vescovi né i monaci mostravano più quell’adeguata attenzione al crescente numero dei poveri richiesta dal vangelo. Accadeva ora di trovare poveri che morivano di fame persino nei pressi delle porte dei monasteri. Cosa inaudita in passato. E per quanto riguardava le diocesi, un concilio in Francia gridava: “Vergogna! I cani dei vescovi sono più nutriti dei poveri!”


 


Ma un fremito di riforma traversò la Chiesa in tutta l’Europa con l’apparire dei nuovi ordini monastici, degli eremiti, dei preti di vita comune, e di molti laici che abbracciavano l’ideale della povertà, rifiutando possedimenti e privilegi. Tutti costoro consideravano i poveri e i diseredati come loro compagni di vita. Roberto d’Arbrissel, addirittura, viveva con loro. In quell’epoca il povero ricevette il titolo di “vicarius Christi” (da notare che solo successivamente questo titolo fu dato anche al papa). Francesco d’Assisi – ed è con commozione che ne parliamo qui, luogo da lui stesso visitato – resta l’esempio più alto di questo nuovo volto del cristianesimo d’inizio del secondo millennio. Di fronte al mutismo di una Chiesa che non parlava più, si mise lui, laico, a dire in volgare il Vangelo, e scelse i “minores”, gli emarginati del tempo, come suoi fratelli. La carità, unitasi strettamente alla povertà, fu all’origine della riforma della Chiesa d’inizio millennio.


 


La crescita costante del numero dei poveri, che nelle città raggiunse livelli molto alti, sino al sei-dieci per cento della popolazione, fece cambiare l’attitudine nei loro confronti. Il povero non era più il “vicarius Christi”. Ora veniva visto come un possibile delinquente e facilmente un malfattore. Il povero, ormai dissacrato e sospettato, è divenuto pericoloso. Al massimo si distinguevano i poveri “buoni” (vecchi, vedove, orfani) e i poveri “cattivi” (oziosi, parassiti, vagabondi). Ma la carità esplose ancora una volta: cercò il suo spazio e lo trovò nel farsi “misericordia”. Le strade e le città dell’Europa si riempirono di ospizi, di ospedali e di lebbrosari e un numero crescente di uomini e di donne, appartenenti ai ceti della nuova borghesia, si organizzarono per portare aiuto ai malati, ai condannati a morte, agli abbandonati, ai pellegrini, ai carcerati, ai poveri vergognosi, e così via. E’ l’epoca delle confraternite. Non c’è paese o città in Europa che non ne abbia una o più per far fronte ai bisogni dei poveri.


 


Tuttavia nella coscienza collettiva la povertà era divenuta soprattutto una questione di ordine pubblico. Mi chiedo: forse perché non erano più così decisive le esperienze di profezia della carità? E’ un fatto però che gli amministratori pubblici iniziarono per lo più a emanare leggi per regolare e controllare la mendicità. Non voglio ovviamente negare i lati anche positivi di questa opera. L’assistenza si municipalizzò e il controllo cittadino sugli ospedali e sulle strutture di assistenza si diffuse rapidamente. La costruzione di grandi “case di lavoro” – simbolo di una nuova epoca nell’assistenza – sanciva la reclusione dei poveri e l’impegno della società a rieducarli al lavoro. La gestione dell’assistenza passò quasi totalmente alle autorità civili, mentre al sacerdote si affidava la “cappellania” spirituale. Vincenzo de’ Paoli fu il primo a distaccarsene rifiutando di mandare i preti della Missione all’ospedale generale di Parigi per l’assistenza spirituale: “Non so bene – disse – se il buon Dio lo vuole”. Scelse, invece, per sé e per i suoi di occuparsi dei poveri andando direttamente nelle loro case. La carità tornava per strada e i poveri erano nuovamente visti come “membra di Cristo” da soccorrere.


 


Il Settecento dell’Europa occidentale cambiò profondamente lo scenario. Di fronte alla persistenza della povertà, nonostante il grande impegno delle autorità civili per debellarla, si intensificò la riflessione per aggiornare la legislazione. Si iniziò a parlare di “beneficenza” e di “solidarietà”, basandoli sul principio laico della filantropia. Restò famoso il detto: “Al povero che domanda l’elemosina, don Giovanni dona un luigi d’oro non per l’amore di Dio ma per amore dell’umanità”. La rivoluzione francese proclamò l’inviolabile diritto del cittadino all’assistenza da parte dello Stato e il corrispettivo dovere della società di gestirla con mezzi opportuni. Tuttavia, con l’andare degli anni, l’inefficacia delle istituzioni di beneficenza pubblica fece riemergere la carità cristiana come “la sola diga potente all’invasione del pauperismo” (Armand de Melun). Il dibattito sulla beneficenza e sulla carità si estese ovunque; si pubblicarono 10.000 volumi, nella sola Francia. Frédéric Ozanam fu tra i primi a “riabilitare la carità” come il modo più efficace per risanare la società malata: “Noi, poveri samaritani…osiamo accostarci a questo grande malato (la società)…per ridargli la speranza di un mondo migliore”.


 


L’Ottocento, con la depressione salariale, gli orari di lavoro sfibranti, l’impiego massiccio di manodopera femminile e infantile, le migrazioni interne, la diffusione accentuata delle malattie professionali, la disoccupazione, l’assenza di un valido sistema previdenziale, vide modificarsi profondamente i volti della povertà e della miseria, sino a identificare il povero con l’operaio. La carità divenne “sociale”: si concentrò sul mondo operaio ma senza dimenticare quei poveri che operai non erano. Quattrocento istituti di suore, con più di 200.000 religiose, nacquero nell’Ottocento per soccorrere quest’ultimi. Fu questo il secolo dei vari don Bosco, Cottolengo, Murialdo, Orione, Calabria, Scalabrini, Balbo. Con loro la “carità” si specializza; all’assistenza generica (pane e vestititi) si aggiunge quella specifica per i nuovi poveri: ex carcerati, prostitute, alcolizzati, minorati psichici, sordomuti, malati cronici, ragazzi orfani, anziani, emigrati, accattoni.


 


 


 


La carità nell’Oriente cristiano


 


 


 


Il cristianesimo occidentale si è affacciato al Novecento con un patrimonio prezioso di molteplici vie di santità tracciate dalla carità nel corso del secondo millennio. Ed è logico chiedersi se la carità non sia il tratto distintivo di ogni via di santità. Dando uno sguardo, anche solo fugace, all’itinerario delle Chiese nell’Oriente mi sembra si possa affermare che la testimonianza della carità emerga con vivezza dalle tante figure di santi che ne hanno illuminato la storia. La grande corrente spirituale del monachesimo orientale è stata una linfa ricchissima di amore per i poveri. “Un grande slancio di carità al servizio del prossimo”, ha osservato Arseniew, è stato un tratto distintivo della tradizione monastica dell’Oriente cristiano, e in modo particolare in Russia. Un padre di monaci russo, grande santo della carità, Iosif di Volokolamsk, ha scritto: “Dà cibo a colui che ha fame, offri da bere a colui che ha sete e, come ci ha ordinato il Signore, ricopri colui che è nudo, accogli il pellegrino, visita i malati, discendi nelle prigioni… Apri la tua casa non ai ricchi e ai nobili, ma ai poveri, alle vedove, agli orfani”. Nell’immenso territorio russo percorso da poveri e da pellegrini i monasteri sono stati per loro davvero una casa di misericordia in cui trovare riparo.


 


In una Russia abitata da tanti poveri, la via della santità è stata quella di un servizio d’amore al popolo. Fu questa la strada degli jurodivye, i folli in Cristo, ma anche degli starcy, degli uomini spirituali, che nella preghiera e nell’ascesi ricolmarono il loro cuore di quello Spirito Santo che è amore. Da quei cuori è sgorgato un irraggiamento spirituale che è stato irraggiamento d’amore. Tornano alla mente le parole di San Serafino di Sarov; “Acquista la pace interiore e migliaia intorno a te, troveranno la salvezza”. Per Serafino “lo scopo della vita cristiana” è “acquistare il dono dello Spirito Santo”, cioè dell’amore divino. “Dio è un fuoco che riscalda e infiamma il nostro cuore e le nostre viscere dell’amore perfetto, non solo per Lui, ma anche per il prossimo”, diceva Serafino di Sarov.


 


In un’altra grande figura di santo russo Tichon di Zadonsk, vescovo di Voronezh dal 1763 al 1767, e poi ritiratosi come recluso nell’eremo di Zadonsk dal 1767 al 1783, troviamo allo stesso tempo un mistico e un uomo d’azione e un predicatore instancabile della giustizia sociale. L’amore verso gli umili, gli oppressi, i poveri fu un tratto caratteristico della sua opera da vescovo e della sua vita da recluso. Egli amava dire: “Bisogna dare ai bisognosi senza pretendere di avere diritto alla loro riconoscenza, nemmeno alle loro preghiere. L’elemosina fatta con il cuore prega da sola, e prega meglio di tutti gli uomini”. Un biografo di San Tichon di Zadonsk ha dato la seguente descrizione del suo atteggiamento verso i poveri: “Fino dai primi tempi del soggiorno nel convento di Zadonsk egli vendette le sue vesti di seta, tonache leggere o calde, il manto foderato di volpe e gli altri indumenti conformi alla dignità di vescovo, e anche la sua imbottita, i cuscini di piume, le sue belle coperte, per distribuirne il denaro ai poveri. […] Anche il pane che gli inviavano i proprietari di fondi dava via, e quando esso non bastava, ne comperava dell’altro per distribuirlo. Poveri e bisognosi ricevevano da lui vesti, calzature, e per essi egli comperava anche pellicce, abiti e tela, ad altri acquistava persino capanne e bestiame, cavalli, mucche… Ma tutto questo non bastava mai, e allora faceva debiti. Quando aveva dato tutto, soleva dirmi: ‘Va’, ti prego, a Elec, e prendi a prestito da questo o quel mercante. Per il momento non ho niente. Ecco che i miei poveri fratelli vengono  a trovarmi e ripartono senza avere ricevuto nessun conforto da me. E’ una pena per me non potere fare altro che guardarli’. Talvolta accadeva anche che egli rispondesse con un rifiuto a qualche povero e gli chiedesse solo chi era e donde veniva. Ma l’indomani ne soffriva, e allora mi chiamava per dirmi: ‘Ieri ho risposto con un rifiuto a quel povero; prendi il mio denaro, per favore, e portaglielo: forse così potremo consolarlo’. Tutti i poveri potevano avvicinarlo facilmente e la sua umiltà era meravigliosa. […] La sua porta era sempre aperta a tutti i poveri e derelitti, ai pellegrini che ricorrevano a lui, e presso di lui trovavano sempre da nutrirsi, da bere e da riposarsi”. L’uomo spirituale è fratello dei poveri ed è per loro riparo dalle difficoltà della vita.


 


La storia della santità in Russia mostra quanto sia artificioso pensare a una dicotomia fra preghiera, vita spirituale, da una parte, e carità, amore per i poveri, dall’altra. Le energie spirituali sono sempre anche energie di carità. Da una vita di preghiera scaturisce la forza e l’intelligenza dell’amore, che permettono ai cristiani di rispondere al bisogno dei poveri nelle diverse condizioni storiche. Fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, in quella tormentata vigilia che precedette gli avvenimenti rivoluzionari del 1917, la società russa conobbe le trasformazioni dell’epoca moderna. Nelle grandi città dell’impero la Chiesa di fronte a nuove realtà di povertà si interrogava sulla sua missione e conosceva il travaglio della ricerca di nuove forme di carità. A San Pietroburgo Ioann di Kronshtadt, a Mosca la principessa, divenuta monaca, Elisaveta – su ambedue queste figure di santi russi ascolteremo delle relazioni – svilupparono dei tentativi significativi di inserimento della Chiesa nel nuovo tessuto sociale a fianco dei poveri, tentativi i cui sviluppi furono impediti dalla persecuzione sovietica.


 


A Kiev l’archimandrita Spiridon (Kisljakov), negli anni della prima guerra mondiale, fondò la Fraternità del dolcissimo Gesù, i cui membri, oltre a condurre un’intensa vita liturgica e di preghiera e a praticare attività di studio biblico, si impegnavano ad assistere poveri, mendicanti, prigionieri e malati. Spiridon celebrava i vespri e predicava in un celebre “caffè dei barboni” nel centro di Kiev. La sua esperienza precedente l’aveva visto come missionario in Siberia, dove in particolare si impegnò a comunicare il Vangelo ai detenuti delle prigioni. Prima di andare in Siberia aveva incontrato un folle in Cristo, Maksim, che gli aveva rivolto le seguenti parole: “Senza preghiera tutte le verità sono come gli alberi senza terra: Oggi non c’è più preghiera nella vita dei cristiani, e anche se c’è non ha in sé la vita. […] Il cristiano, amico mio, è un uomo di preghiera. Suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, la sua vita, per lui sono soltanto Cristo. Il discepolo di Cristo deve vivere soltanto di Cristo. Quando egli amerà Cristo in questo modo, allora senza dubbio amerà tutte le creature di Dio. Gli uomini credono che prima si debbano amare gli uomini e poi amare Dio. Anch’io ho fatto così, ma è stato tutto inutile. Quando ho cominciato ad amare Dio più di tutto, allora in questo amore per Dio ho trovato anche il mio prossimo, e in questo stesso amore per Dio anche i miei nemici sono diventati per me degli altri esseri, sono diventati creature di Dio. La prima forma di amore verso Dio è la preghiera. […] La preghiera trasforma l’uomo in uomo secondo l’evangelo, secondo Cristo. Se i cristiani conoscessero la forza della preghiera sarebbero rigenerati. Io non sono molto istruito, ma la preghiera mi insegna come pensare, come parlare, come agire”. Così Spiridon commentò l’incontro con Maksim: “Da quel momento cominciai a provare compassione per tutti e per tutto: pietà dei morti, pietà dei vivi, pietà di tutti gli uomini senza differenza di nazionalità, di fede, di sesso, di età, pietà di tutti gli animali, uccelli, insetti, pietà degli alberi, della terra, del sole, dell’aria”.


 


Al funerale di Spiridon, nel settembre 1930, nella Kiev staliniana furono i suoi amici, i poveri della città, a portare il feretro in una processione che si stese per alcuni chilometri. La carità, nel cuore del Novecento, è stata il segno della diversità dei cristiani là dove tante volte sembrava prevalere l’odio. Essa, nei modi più diversi, forse fu l’unico fronte ad opporsi alla crescita abnorme dell’anti-carità o quantomeno ad alleviare i drammi provocati dall’affermarsi dei totalitarismi. Una creativa e rischiosa solidarietà unì uomini e donne nei campi di sterminio, nei gulag, e ovunque ci fosse persecuzione. Milioni di martiri e di testimoni, noti e ignoti, sostenuti dalla carità hanno opposto resistenza alle degradazioni del nazismo e del comunismo, come ha illustrato Andrea Riccardi, nel suo importante volume Il secolo del martirio. Nelle innumerevoli tragedie del Novecento, la carità ha scritto, e continua a scrivere, la sua pagina più bella. I confini si sono allargati dall’Europa al mondo intero. I poveri del Terzo Mondo sono ormai nel cuore delle Chiese e di tante altre istituzioni nazionali e internazionali. Giovanni XXIII, affermando che “la Chiesa è di tutti ma particolarmente dei poveri” mostra qual è la scelta preferenziale della comunità cristiana. Paolo VI e Giovanni Paolo II, su questa linea, hanno indicato con forza la via della difesa dei poveri e dei loro diritti. La scelta dei poveri si realizza attraverso un esteso reticolo di carità che si estende in ogni parte del mondo. Forse è stata la prima vera globalizzazione. In ogni caso è la riserva più fresca di energie che l’umanità può accampare, al passaggio di millennio, per contrastare la crescita smisurata degli egoismi e dei particolarismi che continuano a creare violenze e conflitti. La carità, forza che travalica il cristianesimo stesso, obbliga ad uscire da se, a scavalcare qualsiasi muro, per andare dove nessuno va e per vivere dove non si vive.


 


 


 


L’amore preferenziale per i poveri


 


 


 


La carità non è questione di ideologia. E’ piuttosto una energia spirituale che acquisisce una dimensione storica. Mentre però si rende visibile nella storia, mai trova in essa la sua piena realizzazione. La carità va oltre le sue stesse realizzazioni; è per sua natura profetica e può compiere miracoli. La carità va anche oltre la società, ma non si estranea da essa. Anzi si avvicina alle sue piaghe più nascoste e dimenticate tentando di curarle con attenzione. La carità è una energia che rompe ogni barriera e rende vicine persone lontane, le accomuna, le rende familiari, valicando talora abissi che sembrano insuperabili. La carità non ha limiti.


 


Se la carità va oltre lo stesso cristianesimo, di esso tuttavia ne è il culmine. Nei Vangeli l’amore per i poveri appare come parte integrante del contenuto stesso della fede. I segni dell’azione di Dio nella storia sono quelli che manifestano il cambiamento della condizione dei poveri, come mostra l’episodio dei discepoli di Giovanni che si recano da Gesù a chiedergli se sia o no lui il Messia atteso. La fede, stando a questo brano, inizia il suo cammino nella storia proprio dall’incontro con questi segni, ossia con i poveri che sono aiutati, con i malati che vengono guariti, con gli afflitti che trovano consolazione. In tal senso, l’annuncio del Vangelo ai poveri e la concreta vicinanza a loro, si trova all’origine stessa della fede. E’ questa vicinanza che rivela la presenza concreta di Dio in mezzo agli uomini.


 


In tale contesto anche il rapporto della Chiesa verso i poveri non è una semplice aggiunta morale, bensì una dimensione costitutiva della stessa fede. Nella misura, infatti, in cui essa è “corpo di Cristo”, necessariamente, deve assumersi come sua carne anche i poveri. Padre Congar ha scritto a questo proposito: “I poveri sono cosa della Chiesa. Non sono soltanto sua clientela o beneficiari delle sue sostanze: la Chiesa non vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i poveri. Il sacerdozio è incaricato di essi… La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo inteso come comunione. Non può esistere comunità cristiana senza diaconia, cioè servizio di carità che, a sua volta, non può esistere senza celebrazione dell’Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità, Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L’esperienza dimostra che esse vivono o languono insieme…”.


 


La stessa immagine di Dio, vorrei dire, è inseparabile dai poveri. Così appare dalle Sante Scritture, ove la questione di Dio si incrocia sempre con quella dei poveri. C’è un legame radicale che congiunge Dio e i poveri. E questo sin dalle origini. Sin da quando Dio, come scrive il libro della Genesi, preferì il sacrificio di Abele a quello di Caino. “Abel” vuol dire soffio, nulla, debolezza assoluta. “Abel”, più che un nome proprio indica una condizione, la debolezza, o meglio i deboli. Dio sta rivolto verso il debole, privilegia il povero. Questo è il Dio di Gesù Cristo. In ogni sua pagina la Scrittura presenta Dio come il difensore dei poveri e dei deboli, dell’orfano e della vedova. Questo legame fra Dio e i poveri è profondamente radicato nella spiritualità russa. Ha scritto Pavel Evdokimov: “Esiste anche un Cristo russo che ha qualche cosa di essenzialmente evangelico sotto l’aspetto kenotico del Fratello umile degli umiliati, colui che è sempre con i poveri, gli infermi e i sofferenti”. Il legame privilegiato tra Dio e i poveri, con Gesù giunge sino al limite estremo, quello della identificazione. Quando Gesù dirà, alla fine dei giorni: “avevo fame e mi hai dato da mangiare”, si identifica con i poveri; e pone tale identificazione come normativa per la vita degli uomini, più delle stesse manifestazioni “religiose”. Se l’essere stesso di Dio ci è rivelato nel Verbo divenuto uomo solidale con i poveri, è perché l’essere stesso di Dio non può essere concepito come una pienezza ripiegata su se stessa, ma da sempre è in tensione, quasi in un esodo permanente, da sé verso l’altro.


 


La carità verso i poveri perciò non è una aggiunta all’esperienza della Chiesa e dei singoli cristiani, ne è parte integrante, si potrebbe dire che ne è la garanzia evangelica. Una Chiesa senza poveri, è una Chiesa senza Dio. E’ iscritto nelle pagine evangeliche un patto inscindibile tra Gesù e i poveri, e per conseguenza tra quest’ultimi e i cristiani. Tale patto è perciò costitutivo della fede e del suo stesso contenuto: il Signore Iddio e il suo Figlio non sono nomi vuoti e astratti; essi sono fin dall’inizio “compromessi” con i poveri. Senza i poveri non si comprende il Dio di Gesù Cristo. Per questo possiamo anche affermare che l’accoglienza ai poveri è ciò che nella Chiesa parla meglio di Dio. Quando si è vicini ai poveri, non si è mai lontani da Dio.


 


C’è una tradizione popolare russa che mi piace ricordare a questo proposito: “Dalla festa della luminosa Resurrezione fino alla festa dell’Ascensione ogni anno Gesù Cristo percorre la terra, passa per i villaggi, fermandosi sotto le finestre e ascoltando i discorsi dei contadini […] Nelle vesti di un mendicante che chiede l’elemosina, di un vecchio canuto, il Figlio di Dio si presenta alle case di ricchi e poveri, di avari e generosi, di crudeli e compassionevoli. La gente si comporta come al solito, secondo la propria natura, non sapendo di essere messa alla prova dell’amore cristiano da Dio stesso”.


 


L’amore verso Dio e verso il prossimo sono inseparabili. Ma il punto di partenza è l’ascolto di Dio: dall’ascolto nasce la conoscenza e dalla conoscenza l’amore. L’archimandrita Spiridon si sentì dire da Semion, un contadino “folle” di Dio: “Io da Dio non desidero nulla, non desidero neppure di essere un giusto tanto da risplendere come il sole, vorrei soltanto amarlo con tutto me stesso al punto che nessuno possa amarlo più di me. Vorrei dimenticare tutto, dimenticare i miei genitori, dimenticare la mia casa, dimenticare tutto il mondo, dimenticare anche me stesso e trasformarmi in amore solo per lui. Rinuncio anche ad ereditare il Regno di Dio, a vedere Cristo nell’al di là, ad essere un uomo, mi basta diventare puro amore per lui…Un giorno pregavo Dio in mezzo ai campi e per poco questa preghiera non mi ha fatto morire! Mi batteva il cuore, ero coperto di sudore, caddi a terra; in quel momento non ero più me stesso, ero solo amore ardente come un fuoco. Ecco, io desidererei diventare tale amore! Io non chiedo a Dio niente altro se non di essere quell’unico amore per lui, vorrei amare Dio a tal punto, da consumarmi interamente di questo amore, da bruciare d’amore e non essere altro che eterno amore di Dio” (p. 24).