La fraternità per combattere il monoteismo dell’io

di Roberto Cetera

A colloquio con l’arcivescovo Vincenzo Paglia sul suo ultimo libro «La forza della fragilità» La fraternità per combattere il monoteismo dell’io di Roberto Cetera «Le nostre vite sono inesorabilmente improntate alla fragilità. Magari mettiamo la testa nella sabbia per nascondercele. Poi un qualche evento ce le svela in tutta la loro crudezza», esordisce l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presentando il suo nuovo libro La forza della fragilità (Bari, Laterza, 2022, pagine 160, euro 15). «I due anni di pandemia che abbiamo vissuto hanno scoperchiato la pentola delle tante fragilità che preesistevano, sia materiali che psicologiche, tanto dei singoli, che delle istituzioni». Una fragilità universale dunque? «Ma vede, la fragilità è connaturata all’uomo, è insita al suo profilo ontologico; teologicamente possiamo associarla alla consapevolezza della propria creaturalità. Come diceva l’apostolo: tutta la natura soffre le doglie del parto verso l’uomo nuovo in Cristo».

Perché ha scelto di scrivere questo libro?
«Da qualche tempo abbiamo deciso, qui all’Accademia Pontificia per la Vita, di ampliare il nostro spazio di osservazione – oltre nascita e morte, che rimangono i momenti topici dell’esperienza umana, lì dove si è più “soli” – a tutte quelle vicende che pongono a rischio o indeboliscono l’esistenza. E la fragilità è il filo rosso che lega molte di queste vicende. E poi c’è anche un altro motivo: questa riflessione vuole essere un’ulteriore e necessaria declinazione di Fratelli Tutti, l’enciclica che è paradigma dell’intero pontificato di Papa Francesco». Un allargamento di campo, dunque, dopo il suo lavoro sulla vecchiaia. «Eh sì, un tema che ci è molto caro, e che incontra la sensibilità del Papa. Ma quante altre fragilità stanno emergendo anche tra i giovani».

Arcivescovo Paglia, cosa vuol dire con l’espressione “forza della fragilità”?
«La fragilità diviene forza semplicemente quando se ne acquisisce piena consapevolezza. Nasconderla e nascondercela non serve a nulla e ci rende ancora più fragili e vulnerabili. E poi ci occorre l’ulteriore consapevolezza dell’essere tutti interconnessi. Se viene accettata, la fragilità ti permette di chiedere aiuto e di dare aiuto. Uno con l’altro. La fragilità è foriera di fraternità. Nell’accettazione della nostra non autosufficienza si annuncia quella costitutiva relazionalità che fa di ogni uomo un fratello, un figlio, bisognoso di essere amato e protetto».

L’amore dunque vince la fragilità.

«Certo. Noi siamo fragili perché aspiriamo a essere amati. Noi riusciamo ad amare noi stessi solo grazie agli altri che ci amano. Spesso capita di pensare che sia l’amore a rendere fragili, è piuttosto vero il contrario: si è fragili proprio perché possiamo lasciarci amare e diveniamo capaci di rispondere all’amore. La fragilità è porosa, assorbe l’attenzione e l’amore dell’altro». Ma questo spesso non avviene. «Non avviene perché la fraternità è oggi sempre più malata di narcisismo, di quell'”Io” unico a cui ci ha sospinto la cultura del consumo. Quell’Io che Pierangelo Sequeri ha efficacemente chiamato “il monoteismo dell’Io”. Per rimanere ai classici: Narciso ha sconfitto Prometeo. La fraternità non è una formula magica, non è scontata: anche tra fratelli ci si può ammazzare».

E poi c’è una fragilità esistenziale, che affligge tutti, quella data dalla consapevolezza della finitudine.
«Sì, c’è un gran silenzio, una sorda complicità, sul tema della morte. La morte ha il peso del peccato. Non c’è peccato che non nasca da quella angoscia inconscia della finitudine che pervade senza sosta il nostro essere. La declamazione dell’Io come illusorio antidoto alla paura della fine.
Anche per questo la rimuoviamo: fare i conti col peccato inevitabilmente ci ricondurrebbe al mistero del senso della vita. Però è anche vero che la fragilità permette l’apertura all’Altro e all’Oltre. Certo non ti immortala, non ti lega, ma ti svela anche che non c’è una fine. Non è una pia speranza, non è un palliativo: ce lo dice anche la pluridimensionalità spazio-temporale della quantistica. È proprio la consapevolezza della fragilità, la sua ordinarietà, che può farti superare la paura della morte, inserendola come uno degli eventi fragili che occorrono in una vita senza fine. La morte ti fa sentire fragile, ma la fragilità ha l’incomparabile vantaggio di farti intravedere l’Oltre».

Mi perdoni l’impertinenza: se la fragilità va accolta senza reticenze e testimoniata posso chiederle qual è la fragilità dell’arcivescovo Paglia?
«L’interrogativo. La ricerca, a volte angosciata. Il lasciarmi interrogare dal mondo. Fin da giovane ho avvertito il bisogno di sentirmi scomodato dal mondo, provocato dal dolore, mi sono lasciato consapevolmente contagiare da tutto e da tutti contro il desiderio di sicurezza. Già quando ero in seminario il rettore mi redarguiva perché mi ponevo, e gli ponevo, troppi interrogativi. Appartengo a una generazione di preti romani che vissero l’altalena tra la porta stretta del Sinodo di Roma e la porta spalancata del Concilio. Se oggi mi appassiono al tema della fragilità è perché con la fragilità sono sempre stato in dialogo. Ho imparato a lasciarmi anche ferire dalla fragilità e dalla insicurezza. La domanda che mi ha sempre accompagnato è: cosa debbo restituire? Perché la fragilità ti esorta a dare e crescere dentro. E far crescere gli altri».

Che terapia dunque per l’essere fragile?
«Comprendere la propria debolezza e farsi carico di quella altrui. Il fragile è un mendicante d’amore. In questo senso penso che la fragilità sia fonte della fede».

Tra le tante fragilità resesi evidenti c’è frequente anche quella dei preti.
«Sì. Anche il ruolo del prete vive oggi un suo travaglio. Non potrebbe essere altrimenti perché il prete vive nel mondo, e non è estraneo ai cambiamenti, culturali ma anche antropologici, sempre più rapidi che questo impone alle nostre vite. Peraltro il prete è necessariamente chiamato per la sua stessa missione a toccare con mano le tante fragilità del presente. E a contaminarsi salutarmente in uno sforzo empatico. Io credo che la fragilità più presente nei preti oggi – analogamente a buona parte dell’universo maschile – consista in una diffusa crisi della “paternità”: mi duole dirlo ma vedo molti preti amici, fratelli, perfino figli; ma pochi padri. In questo senso credo che la bella insistenza di Papa Francesco sulla figura di san Giuseppe voglia avere un significato insieme pedagogico e profetico. Nel caso dei preti la via dell’accoglienza e dell’elaborazione della propria fragilità ha oggi un luogo straordinario in cui manifestarsi: il Sinodo. Un’occasione ancora non valorizzata abbastanza».

Per noi tutti il messaggio è dunque vivere le fragilità come rilancio di una forza interiore.
«Vede, alla fragilità afferisce, in una dimensione individuale, la considerazione che Papa Francesco fece durante la pandemia: peggio della crisi c’è solo il rischio di sprecarla».

L’OSSERVATORE ROMANO