Libertà e responsabilità femminile: dalla lettera di Ratzinger alle nuove frontiere della differenza di genere

Libertà e responsabilità femminile: dalla lettera di Ratzinger alle nuove frontiere della differenza di genere.

 


        Tra gli appuntamenti che questo anno segnano la giornata internazionale della donna c’è anche questo. In verità l’ambizione era avere qui a Terni il cardinale Ratzinger perché ci parlasse della “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo”. È un documento della Congregazione della Dottrina della Fede, guidata dal cardinale Ratzinger, che ha suscitato un interessante dibattito sulla questione femminile scompaginando i tradizionali schieramenti. Sarebbe utile allargare questo dibattito anche perché la Lettera ha suscitato molte riflessioni anche all’interno della stessa Chiesa cattolica. Purtroppo avete me, e non il cardinale, e faccio fatica, per ovvii motivi, a rappresentare le donne cattoliche. Non è comunque questa la sede per trattare del problema femminile nella Chiesa, anche perché è un tema talmente complesso e così vasto che sarebbe sciocco liquidarlo in poche battute. La questione femminile è senza dubbio tra i “segni dei tempi” che interpellano la Chiesa. Il ritardo nella comprensione di questo problema ha spinto Giovanni Paolo II a chiedere perdono in una pubblica “Lettera alle donne”, indicate come “un segno della tenerezza di Dio verso il genere umano”. Il Papa non manca di spingere verso una rinnovata coscienza di questa dimensione essenziale alla Chiesa e al mondo. L’ultimo gesto è di qualche anno fa: la proclamazione di tre donne, Caterina da Siena, Brigida di Svezia, Edith Stein, come patrone d’Europa in aggiunta ai tre protettori uomini, Benedetto, Cirillo e Metodio. L’accendersi del dibattito, anche con le forti tensioni polemiche, sta ad indicare la centralità della questione femminile anche nella riflessione teologica e nella vita della Chiesa, da intendersi non solo nei suoi aspetti funzionali ma in quelli che toccano l’essenza stessa della Chiesa. Comunque, la Lettera, come Ratzinger stesso si auspica, è “un punto di partenza per un cammino di approfondimento all’interno della Chiesa e per instaurare un dialogo con tutti gli uomini e le donne di buona volontà”.


Ed eccoci qui. Il cardinale, nella Lettera, dopo aver accennato alle due tendenze contrapposte, ossia a quella che sottolinea la diversità come sopraffazione dell’uomo sulla donna (o viceversa, aggiungo io) e all’altra che l’annulla per evitare ogni supremazia, richiama la tradizione biblica per delineare quei tratti antropologici che nascono dalla creazione stessa ove il maschile e il femminile appaiono come dimensioni perenni e incancellabili. Esse sono state create non per contrapporsi gerarchicamente ma per trovare nella loro unità un complemento reciproco. All’interno di questa dualità il cardinale sottolinea la presenza nella donna di ciò che viene chiamata la “capacità dell’altro” che porta sino a “dare la vita” e non solo nel senso biologico. Questo gli fa dire: “In tale prospettiva si comprende il ruolo insostituibile della donna in tutti gli aspetti della vita familiare e sociale che coinvolgono le relazioni umane e la cura dell’altro. Qui si manifesta con chiarezza ciò che Giovanni Paolo II ha chiamato il genio della donna. Questo implica prima di tutto che le donne siano presenti attivamente e anche con fermezza nella famiglia, società primordiale e, in un certo senso, sovrana, perché è qui, innanzitutto, che si plasma il volto di un popolo, è qui che i suoi membri acquisiscono gli insegnamenti fondamentali. Essi imparano ad amare in quanto sono amati gratuitamente, imparano il rispetto di ogni altra persona in quanto sono rispettati, imparano a conoscere il volto di Dio in quanto ricevono la prima rivelazione da un padre e una madre pieni di attenzione”.  Continua poi il cardinale le sue riflessioni sulla presenza della donna nella società e nella Chiesa.


       Per parte mia vorrei offrire un piccolo contributo a partire dal racconto della creazione dell’uomo e della donna. Ci sono due testi. Il primo è in Genesi 1, 26 ove si scrive: «Dio disse “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e do­mini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo”». Il testo prosegue affer­mando che Dio creò l’uomo a sua im­magine: «a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». Sono versetti estremamente illuminanti che gettano una luce sia sull’uomo che su Dio. Il secondo è in Genesi capitolo 2, 7: «allora il Signore Dio plasmò l’uo­mo con polvere dal suolo (l’ebraico è più eloquente: plasmò l’adam con 1’adamà dal suolo) e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo diven­ne un essere vivente». E qui avviene la creazione di Adamo dalla pol­vere. Di Eva si scrive che viene ricavata dal fianco di Adamo, con Dio che dice: «non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto a lui simile (ki-negdò)» (2, 18). Una riflessione rabbinica afferma che Dio creò l’uomo dalla polvere, ma per il capo scelse la polvere più pregiata, quella di Gerusalemme. La donna invece è stata creata con una sostanza molto più nobile, l’osso. E una tradizione askenazita dice che Dio non l’ha cerata per primo per due motivi: primo perché aspettava che Adamo ne avesse desiderio, altrimenti l’avrebbe disprezzata, e l’altra, un po’ più umoristica, è che Dio ha creato la donna dopo l’uomo perché non voleva consiglieri durante la creazione.


       Ma tornando al primo testo vorrei sottolineare che esso ci parla anzitutto di Dio, per dirci che non è né maschio né femmina. Secondo il testo Dio è “maschio-femmina”: «a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». E c’è da notare che la condizione di essere immagine di Dio non è per così dire naturale, un dato fisso e basta, è piuttosto una vocazione. È a dire che ogni essere umano è chiamato a realizzare questa immagine in sé. L’uomo e la donna non debbono semplicemente conservare in sé l’immagine di Dio, ed è già tanto (di qui nasce la contrarietà alla pena di morte e l’impegno per la difesa della vita senza “se” e senza “ma”), ma realizzarla. Ed è un compito che dura tutta la vita. Questa affermazione, lo ripeto, riguarda Dio ancor prima che l’uomo.


       Purtroppo, sia nell’ebraismo che nel cristianesimo, è prevalsa una cultura maschilista che ha portato a dimenticare le immagini al femminile di Dio che sono pur presenti nella Bibbia. Una teologa femminista Letty Russel ne ha parlato nel suo libro “I nomi dimenticati di Dio”. Si tratta di nomi che alludono a funzioni materne e con cui appunto si designa Dio con metafore femminili, come ad esempio: “Voi siete portati da me fin dal seno materno, sorretti fin dalla nascita”, o anche quando si descrive Dio come una madre che porta Israele sulle sue braccia per svezzarlo. In una sintesi veloce potremmo dire che le connotazioni femminili di Dio nella Bibbia convergono tutte sul termine “misericordia” che in ebraico ha radice nel concetto femminile di “rachem”, utero. Come è femminile, in ebraico, lo “Spirito Santo”; ne farò anche solo un cenno alla fine. Insomma Dio è maschio e femmina. Le riflessioni su questa linea sarebbero molteplici, a partire dal mistero trinitario. Per i cristiani Dio non è solo, o meglio non è una unità solitaria, ma una unità plurima.


La stessa creazione va compresa come una sorta di bisogno di Dio di uscire da Sé, di generare qualcosa che gli fosse simili. E creò il mondo, e soprattutto creò la persona umana, e maschio e femmina la creò. E il comando biblico “crescete e moltiplicatevi”, che alla lettera si deve tradurre: “fate frutto e diventate molti”, è da intendersi come uno specchio per l’uomo e la donna di continuare la creazione che Dio stesso aveva fatto. Il significato di questo comando è che la persona umana, maschio e femmina, non è un episodio isolato, è la condizione della mondo nel corso del tempo. La persona uomo-donna diventa quindi “sposo e sposa” e quindi “padre e madre”. L’uomo-donna, questo binomio, è quindi la presenza di Dio nella storia, una presenza reale che non può essere soppressa. Nella tradizione ebraica questa dimensione è a tal punto presente che l’uomo non solo può ma deve sposarsi. È bello un testo della Cabbala ebraica. Il credente si chiede cosa accade se un uomo intraprende un lungo viaggio e lascia a casa la moglie. Come fa ad essere “maschio e femmina”, se è solo per tanto tempo? La risposta è la seguente: Dio lo fa accompagnare dalla divina Shekhinà, una parola che indica l’aspetto femminile di Dio, e che talora ha l’aspetto di una colomba. L’uomo che viaggia da solo senza la moglie è dunque accompagnato dalla divina Shekhinà. E, quando rientra in casa, deve onorare la moglie, di cui la Shekhinà è stata in un certo senso supplente.


Questi brevissimi cenni sul dato biblico sottolineano l’ineliminabile dialettica di uguaglianza-diversità presente sia nell’uomo che nella donna. È una unione dialettica che non permette separazione, ma solo distinzione. Ed è su questa base che nel Nuovo Testamento si può dire che con Gesù sono abbattuti tutti i muri che dividono, anche quelli che separano l’uomo dalla donna. Quando l’apostolo Paolo dice che in Cristo non c’è più né giudeo né greco, né uomo né donna non intende annullare le diversità ma affermare la pari dignità tra l’uno e l’altro. Gesù, in effetti, con le sue parole e il suo atteggiamento con le donne non solo ha rivoluzionato le consuetudini dell’epoca, ma ha liberato radicalmente la donna da ogni inferiorità.

Non ne abbiamo il tempo ma andrebbe esaminata la figura di Maria. E permettete che termini con un breve cenno al mosaico absidale di Santa Maria in Trastevere dove si vede Maria che sta seduta sulla stesso trono con Gesù che l’abbraccia. È l’immagine di Gesù che abbraccia la “sposa”, la Chiesa, Maria. E fuori del trono c’è Pietro, l’istituzione. Il genio femminile nella Chiesa non è nel terreno della funzionalità, ma dell’essenza. Un noto teologo svizzero, von Balthasar, ha parlato del “principio mariano” nella Chiesa, affermando che la donna è, nella Chiesa e nel mondo, custode della santità e della forza dello Spirito Santo. Accennavo all’inizio che Spirito in ebraico è femminile. Non possiamo sviluppare qui questo concetto, ma sarebbe davvero importante per coglierne tutte potenzialità, e non solo per la Chiesa. Sono significative a tale proposito le riflessioni del teologo ortodosso Evdokimov il quale, nel bel volume: “La donna e la salvezza del mondo”, conclude che la vocazione della donna è proteggere il mondo degli uomini in quanto madre e salvarlo in quanto vergine, dando a questo mondo un’anima, la propria anima. È una visione che affonda le radici più sulla mistica che su una fredda analisi razionale che rischia di uccidere la complessità del binomio uomo-donna e di rattristare il mondo. E avrebbe ragione Giraudoux il quale, nel testo “Sodoma e Gomorra”, ipotizzando un’epoca epoca in cui la donna non saprebbe né amare né donarsi, afferma: “è la fine del mondo!” Ma noi non vogliamo che il mondo finisca.

Incontro sulla donna a Palazzo Primavera