“L’urgenza non sia garantire il fine vita, ma le cure palliative”
di DOMENICO AGASSO JR
CITTÀ DEL VATICANO. Perché il dibattito pubblico si svolga in un clima più sereno e prendere decisioni sagge sui temi del fine vita, il punto di partenza è «garantire effettivamente l’accesso alle cure palliative». Dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza con cui la Consulta ha escluso in determinati casi la punibilità dell’aiuto al suicidio, parla monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita.
Monsignor Paglia, qual è la sua valutazione sulla decisione della Consulta?
«Vorrei anzitutto metterne in luce gli aspetti positivi. Il primo è che la Consulta non riconosce un diritto all’aiuto al suicidio, che continua a rimane un crimine. Quanto si stabilisce è solo la sua non punibilità in ben precise e stringenti condizioni: malattia irreversibile, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, sofferenza fisica o psichica intollerabile, capacità di prendere decisioni libere e consapevoli».
Questo che cosa significa?
«Il medico che riceve la richiesta non ha l’obbligo di fornire questa prestazione, ma la risposta è affidata alla sua libertà di coscienza. Inoltre, fra le condizioni previe si enumera anche l’avvio di un percorso di cure palliative, che devono essere garantite al paziente insieme a una adeguata terapia del dolore».
Le cure palliative sono una novità delle motivazioni della sentenza?
«In realtà, la Consulta l’aveva già menzionato nell’ordinanza n. 207 del 2018. Ma ora viene definito come vincolante. Lo ritengo un punto della massima importanza».
Perché?
«È un elemento di accordo molto ampio. Il Comitato nazionale per la bioetica nel suo parere sul suicidio assistito del luglio scorso, che pur riportava opinioni differenziate, auspica in modo unanime la diffusione delle cure palliative e della terapia del dolore. Ma anche la Dichiarazione congiunta delle tre religioni abramitiche sulle questioni di fine vita, che abbiamo firmato in ottobre in Vaticano alla presenza di papa Francesco, afferma con forza un comune impegno su questo fronte. In Italia poi abbiamo la legge n. 38/2010, che viene considerata molto valida dagli esperti, ma che è ampiamente disattesa e inapplicata».
Che cosa si può fare per diffondere le cure palliative?
«Mi lasci dire che il primo passo è di tipo culturale. Si tratta di promuovere una cultura della cura come stile di relazione con gli altri, soprattutto i più fragili e i più vulnerabili. È un compito che coinvolge l’intera società».
E la medicina?
«Naturalmente la medicina è particolarmente sollecitata da questa prospettiva. Occorre passare dalla logica della prestazione e della guarigione a tutti i costi alla presa in carico della persona in tutte le sue dimensioni. Si tratta di un accompagnamento che si protrae nel tempo e che implica il riconoscimento del limite. Ci sono situazioni in cui non si può più guarire, ma si può, anzi si deve, continuare a curare la persona e le relazioni in cui è inserita, soprattutto quelle familiari».
Quali sono i passi da compiere?
«Come accennavo, il primo fronte è quello di promuovere una mentalità all’interno della società nel suo complesso. Per dirlo con l’espressione ormai molto nota di a papa Francesco, dobbiamo superare la “cultura dello scarto” e la “globalizzazione dell’indifferenza”. Il tessuto sociale e familiare è molto importante e in questo le diverse comunità religiose, come è affermato nella Dichiarazione sopra citata, possono costituire un valido sostegno. Come Accademia per la vita abbiamo pubblicato un libro bianco che si rivolge ai diversi soggetti che possono contribuire in questa linea a livello internazionale».
Quali sono?
«Operatori sanitari, università, politici, giornalisti e altri. È cruciale l’impegno formativo nelle università, dove la medicina palliativa viene vista ancora come una soluzione di ripiego, mentre occorrono competenze e capacità molto avanzate e multidisciplinari. Garantire effettivamente l’accesso alle cure palliative è una condizione importante perché il dibattito su questi temi possa svolgersi in un clima di maggiore serenità e senza la paura di sofferenze che possono invece essere eliminate».
Vede altri punti su cui insistere?
«Anzitutto, ribadisco quanto già detto sul sì all’accompagnamento e il no all’abbandono della persona malata, anche quando non è più guaribile. Al contempo vedo la necessità di fare chiarezza sul no all’accanimento terapeutico o, meglio, «ostinazione irragionevole» dei trattamenti».
Ci spiega?
«Bisogna affermare che è legittimo per il paziente non iniziare o sospendere i trattamenti quando, attraverso un adeguato dialogo con i medici (e con i familiari), egli giudica che siano sproporzionati. In questo caso non si intende procurare la morte, ma si riconosce di non poterla impedire (cfr. Catechismo Chiesa Cattolica 2278). Certo l’elaborazione di questo giudizio va sostenuto con saggezza, favorendo una comunicazione equilibrata con tutti coloro che circondano il paziente. La menzione dei comitati etici mi sembra interessante in questa linea, anche se il loro ruolo sarà da precisare».
Quindi la sua valutazione della Sentenza è totalmente positiva o vede qualche elemento che suscita difficoltà?
«In effetti, ci sono anche delle domande, su cui bisogna riflettere più approfonditamente. In generale, vedo il rischio che si percorrano scorciatoie e diminuisca l’impegno nel prendersi cura della vita umana là dove è più fragile e vulnerabile. Ritengo un grave errore pensare che la scelta di togliersi la vita riguardi solo chi la compie: siccome siamo necessariamente in relazione con gli altri, i nostri comportamenti hanno sempre anche effetti sulle persone che ci circondano e sulla società, verso cui siamo quindi responsabili».
Ci sono anche aspetti che riguardano più direttamente il mondo della sanità?
«Per le professioni sanitarie vedo il rischio che sia messa in questione la loro stessa natura. Infatti, il loro compito riguarda i trattamenti da somministrare per far fronte alla malattia e migliorare la salute. Nel caso del suicidio assistito, invece, oggetto della decisione diventa la vita stessa, e ci si pone l’obiettivo di sopprimerla. Questo è, tra l’altro, uno dei motivi per cui la Associazione medica mondiale ha riaffermato proprio il mese scorso (70a Assemblea generale, a Tbilisi in Georgia), la sua opposizione all’eutanasia e al suicidio assistito. Inoltre, noto che nella sentenza non è chiaramente riconoscibile la differenza tra suicidio assistito ed eutanasia: c’è una certa indeterminazione sulle modalità e sul soggetto che somministra il farmaco letale. Infine vedo una difficoltà nel collegare i comportamenti non punibili alle norme della L. 219, che legittimano il rifiuto di qualunque trattamento, cioè pongono condizioni molto meno restrittive di quelle stabilite dalla Consulta. Occorre fare attenzione al possibile ampliarsi di questo perimetro».