Messa per la Città 10 febbraio 2002
“Care sorelle e cari fratelli,
Gesù, dopo aver proclamato il Vangelo delle beatitudini, si rivolge ai discepoli dicendo loro che essi sono sale della terra e luce del mondo. Certo, sembrano esagerate queste parole, viste che siamo appena agli inizi della predicazione, e i discepoli non è che siano proprio degli esempi di “uomini delle beatitudini”. Ma Gesù insiste: “Se il sale perde il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?” In queste parole di Gesù c’è come una domanda di responsabilità, una chiamata. E’ come se Gesù dicesse: “non ho altro che voi per l’annuncio del Vangelo”. Oppure: “se la vostra funzione viene meno, se il vostro comportamento è insipido e senza gusto, non ho altro rimedio per l’annuncio evangelico”. E’ quel che accadrebbe se la lucerna accesa fosse posta sotto un secchio (a volte un secchio rovesciato faceva da mensola). Anche in questo caso non c’è rimedio, tutti si resta al buio. Tutto ciò non era vero solo allora, lo è altrettanto oggi. La funzione di essere sale della terra e luce del mondo non deve essere mai disattesa. Certo, se ci guardiamo, sappiamo di essere davvero poca cosa. Com’è possibile essere sale e luce? Pietro, in un momento di consapevolezza, disse a Gesù che gli si avvicinava: “allontanati da me che sono un uomo peccatore!” Questa frase, in verità, dovremmo pronunciarla tutti, anche perché siamo ben al di sotto dell’apostolo Pietro. E’ vero che talora insistiamo sulla nostra modestia, ma più che per un senso di vera umiltà è per un atteggiamento rinunciatario, quindi per non illuminare e per non salare. Insomma, la presunta indegnità è solo passività, pigrizia e rinuncia. Il Vangelo di Matteo insiste nel dire che noi, pur essendo poveri uomini e povere donne, siamo sale e luce. Ma come? Ed è qui che va posta la nostra attenzione. Certamente non siamo sale e luce da noi stessi, ma solo partecipando al vero sale e alla vera luce: Gesù di Nazareth. Egli è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo”, come scrive Giovanni. La luce non viene dalle doti personali o dalle nostre virtù. Paolo, nella lettera ai Corinzi, ricorda che egli si presentò in mezzo a loro non con sublimità di parole, bensì “in debolezza e con molto timore e trepidazione”. Ma egli era forte del Vangelo, era forte dell’amore del Signore. Anzi la sua debolezza fu come una prova che il Vangelo veniva da Dio e non da lui. E lo dice: vi ho predicato Gesù crocifisso, “perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana ma sulla sapienza di Dio”. In queste parole c’è un profondo senso di liberazione. Noi cristiani, a differenza di quel che normalmente si pensa, non siamo condannati a nascondere la debolezza di cui siamo impastati. Essa non allontana da noi lo sguardo Dio. Così avviene tra gli uomini. Se sei debole nessuno ti guarda, nessuno ti cerca, nessuno ti considera. Non è così con Dio che è venuto a cercare i peccatori e a consolare i deboli. Il primo a non vergognarsi della nostra debolezza è proprio il Signore. Non c’è alcun disprezzo per l’uomo da parte del Vangelo; non c’è alcuna antipatia da parte del Signore, che a ragione i cristiani d’Oriente chiamano: “filantropos”, ossia “l’amico degli uomini”. E’ questo amico che si fa vicino a noi e ci dona la sua grazia, ossia la sua forza, il suo Vangelo, i suoi sacramenti, il suo amore. Chi si lascia amare da Dio, da debole che era diventa forte. Uno studioso protestante che è stato ucciso nei capi di concentramento dalle SS, diceva: il Vangelo ci rende non solo buoni, anche forti. Care sorelle e acri fratelli, ecco il sale e la luce: essere in questo mondo uomini e donne buoni e forti. In questi giorni la nostra città vive il mese di San Valentino. Dobbiamo apprendere da lui ad essere buoni e forti nell’amore. E quel che il Vangelo dice di ciascun discepolo dovremmo applicarlo anche alla nostra città. Essa, è vero, sta in una conca e non somiglia a quella città di cui parla il Vangelo che è posta sul monte: “non può restare nascosta una città collocata sopra un monte”. Tanto più, potremmo aggiungere, non può restare al buio una città posta in una conca. A Natale, infatti, accendiamo la stella a Miranda perché faccia luce. Ma non dovrebbe essere così in ogni tempo, anzi in ogni giorno? Eppure spesso questa nostra città è senza sapore e senza luce per tanti. Scambiamo i sapori della vita con le nostre soddisfazioni passeggere e le luci con le luminarie. Altro è la luce vera e il sale sapido. Terni. Ha bisogno del sale dell’amore e della luce del Vangelo. Così Terni deve risplendere davanti agli uomini. Il Vangelo, non a caso, aggiunge: “così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, che vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. Le opere dell’amore sono la luce vera che illumina e risplende. E tra esse, il profeta ne enumera alcune: “spezza il tuo pane con l’affamato, introduci in casa i senza tetto, vesti chi è nudo senza distogliere gli occhi dalla tua gente”. La carità è la luce del Signore ed essa riesce a rendere fermentata e saporita la vita di questa nostra città. Care sorelle e cari fratelli, impariamo a voler bene e facciamo opere di amore. Solo “allora – così dice il profeta – la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua luce sarà luce per tanti come un giorno pieno”.