Quinta Domenica di Pasqua
Dal vangelo di Giovanni 15,1-8
“Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
È la quinta domenica “di” Pasqua, la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno della resurrezione. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, segno della fedeltà di Dio. Tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti. Tornano perché tutti possiamo restare nella Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano: “Non possiamo vivere senza la domenica”, ossia “non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto”. Potremmo applicare anche alla domenica la parabola odierna della vite e dei tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni della settimana. I giorni feriali restano senza frutto se non sono vivificati dallo spirito che riceviamo nella santa liturgia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni che seguiranno.
La Parola di Dio sottolinea la necessità di “rimanere” in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima Lettera Giovanni afferma: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui”. E, nella parabola della vite e dei tralci, i termini “rimanere” e “dimorare” ne sono il cuore. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era ben nota ai discepoli. Uno degli ornamenti più vistosi del Tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù vide era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo che era fissata sulla facciata principale del Tempio. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte!”, invoca il salmista (Sal 80). E Isaia, nel mirabile “Canto della vigna”, descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’Israele: “Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (2,21).
Nelle parole di Gesù vi è però un cambiamento piuttosto singolare. La vite non è più Israele, ma lui stesso: “Io sono la vera vite”. Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testamento. Nel primo discorso Gesù chiarisce chi è la vera guida del popolo di Dio. E dice loro: “Io sono il buon pastore”. Subito dopo, iniziando un secondo discorso, afferma: “Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore”. Gesù si identifica con la vite, specificando che è la “vera” vite, ovviamente per distinguersi da quella “falsa”. Non è però una vite isolata. Gesù aggiunge: “Io sono la vite, voi i tralci”. I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essenziale e forte. È un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologici, le nostre buone o cattive condizioni.
L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirompente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto”. Sono belle le parole di commento a questa pagina evangelica che fece Papia, un vescovo del secondo secolo che aveva conosciuto gli apostoli: “Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avrà diecimila tralci ed ogni tralcio avrà diecimila pampini e ogni pampino diecimila grappoli. Ogni grappolo avrà diecimila acini, ed ogni acino spremuto darà una misura abbondante di vino”.
Il Vangelo prosegue: “Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Sì, proprio quelli che “portano frutto” conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che, di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere “senza macchia” (Ef 5,27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo senso che va intesa la potatura. Il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i suoi figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scontata né naturale, e non è un progresso lineare. Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a sentimenti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È qui che si deve potare, e non una volta sola, perché questi sentimenti si ripresentano sempre, seppure in modi diversi. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, appunto, potature.
Questi tagli, talora anche molto dolorosi, purificano la nostra vita e fanno scorrere con maggior freschezza la linfa dell’amore del Signore. Per sei volte, in otto righe, Gesù ripete: “Rimanete in me”, “rimanete nella vite”. È la condizione per portare frutto, per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono. Magari, si saranno chiesti: “Ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?”. In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui: si rimane in lui se le “sue parole rimangono in noi”, come Gesù stesso sottolinea. È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. È la via che scelse Maria, la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù ad ascoltarlo. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro dell’icona è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’immagine della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesù è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di non amare a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità.