“Rivedo Romero in Bergoglio, stesso amore per i poveri”
di Piero Schiavazzi
“La passione non è mai una linea senza sbalzi” e Monsignor Óscar Romero era spinto “da un amore squilibrato verso i poveri, gli oppressi, i violentati”. Con una chiave di lettura a doppia mandata, psicanalitica e geopolitica, il vescovo Vincenzo Paglia, postulatore della causa di beatificazione, risponde alle domande dell’Huffington Post e rende omaggio alla figura storica del martire salvadoregno, esplorandone la complessità e l’attualità, nel trentacinquesimo anniversario della morte, avvenuta il 24 marzo 1980.
Precursore del pontificato di Francesco, se fosse vissuto oggi Romero sarebbe probabilmente cardinale. Invece in luogo della berretta rossa si accinge a ricevere l’aureola della santità. Evento destinato comunque a segnare un passaggio epocale nel cammino delle leadership latinoamericane, dalla stagione dei comandanti massimi a quella dei santi rivoluzionari, ascetici e pragmatici. Sulla scia trascinante del Papa argentino.
Ma Óscar Romero – è questo il tratto più originale dell’intervista – non rappresenta soltanto un simbolo dell’Occidente, nel momento in cui le Americhe ritrovano la propria unità con la pace tra Cuba e Stati Uniti. La parabola della sua stella volge piuttosto a Oriente, dove il terrorismo fondamentalista si fa stato e diventa “di stato”, esportatore di squadre della morte, come quella che la mattina di trentacinque anni fa insanguinò la cattedrale di San Salvador.
Dall’icona della ormai prossima beatificazione, il vescovo assassinato sull’altare alza l’ostia come un emblema della sacralità del corpo, di fronte all’efferatezza dei nuovi carnefici. Un “habeas corpus” per il millennio, affidato alla testimonianza di un moderno eroe, che vive per il suo Dio e convive con le proprie paure. Fragile e forte, combattente e combattuto, come si evince dalle parole di Monsignor Paglia, che ci riportano alle atmosfere degli anni ‘80 e ci proiettano, al tempo stesso, nel ritorno al futuro della chiesa di Bergoglio.
Alla vigilia del martirio, Romero mostra lo stesso presentimento di Gesù nel Getsemani. La visita del giorno prima, in casa di amici, evoca un’atmosfera da ultima cena. Insieme all’eroismo anche la paura è una prerogativa dei santi?
Romero non era un eroe ma un pastore che – sull’esempio di Gesù – ha scelto di essere accanto al suo popolo anche a costo della vita. Quattro settimane prima di essere ucciso scrive nel Diario:
“Ho paura per la violenza verso la mia persona. Sono stato avvertito di serie minacce esattamente in questa settimana. Temo per la debolezza della carne ma chiedo al Signore che mi dia serenità e perseveranza. … Il padre (spirituale) mi ha dato coraggio dicendomi che la mia disposizione deve essere dare la vita per Dio, qualunque sia lo scopo della mia vita… Gesù Cristo assistette i martiri e, se necessario, lo sentirò più vicino nell’affidargli il mio ultimo respiro”.
È difficile comprendere la sua scelta, come quella dei martiri cristiani, senza la fede che riempie di forza la debolezza umana.
Bergoglio interpreta in chiave realistica, non solo cromatica, il legame tra porpora e sangue. Nei suoi primi concistori ha dato la berretta a due prelati che riconducono alla biografia di Romero. L’arcivescovo di Cotabato nelle Filippine, oggetto di un attentato dinamitardo mentre celebrava messa. E quello di Morelia in Messico, “el cardenal insurgente”, che si batte con il popolo contro i narcos. Se fosse vissuto oggi, ai tempi di Francesco, secondo Lei Romero sarebbe già cardinale?
Risponderei che senza dubbio ci sarebbe una comprensione profonda tra Romero e Francesco. Anzi, aggiungo che non è a caso che la beatificazione di Romero avvenga proprio sotto il pontificato di papa Francesco, primo papa latino americano e grande sostenitore di una “Chiesa povera e per i poveri”. Tante parole e tanti gesti di Francesco sono stati già di Romero, un pastore che ha scelto di vivere in mezzo al popolo di Dio. E si potrebbero applicare benissimo le parole che papa Francesco ha rivolto ai nuovi cardinali: non lasciarsi dominare alla paura di perdere i salvati; piuttosto accogliere l’audacia di salvare i perduti.
La beatificazione di Romero porta sugli altari l’istmo centroamericano, regione sottile e nevralgica. Una miccia che si allunga su quel grande barile di speranze “a pressione” che è l’America Latina. Dopo la stagione dei comandanti massimi, il testimone della rivoluzione passa ai santi?
In effetti mi ha sempre impressionato la fama di santo difensore dei diritti dei poveri che mons. Romero ha goduto e conservato nel corso di questi anni sia presso i credenti sia presso gli uomini di buona volontà. In quel piccolo paese si concentravano al tempo di Romero una serie di forti tensioni politiche, sociali, culturali e anche teologiche. Romero oggi è testimone per l’intera America Latina di un cristianesimo conciliare che riesce a dare una speranza nuova non solo per quel continente ma per la Chiesa universale.
Lei ha raccontato che a Romero furono imputati problemi caratteriali e di squilibrio. Una certa dose di stranezza, però, non è in fondo un ingrediente della santità? Come se essere toccati da Dio sconvolgesse oltre all’anima pure la psiche…
Ho sempre sostenuto la causa dei beatificazione di Romero per il suo martirio. Egli ha avuto un carattere non semplice, aveva le sue paure e anche i suoi problemi di natura psicologica, per di più si è trovato in un contesto complesso che non era sempre facile analizzare. Ma la sua passione per il popolo e la Chiesa – e la passione non è mai una linea senza sbalzi – lo portava ad un amore “squilibrato” verso i poveri, gli oppressi, i violentati.
Lei è stato molto vicino a Giovanni Paolo II: che spiegazione si è dato, nel profondo, al di là dell’aneddotica congiunturale, della distanza tra due uomini che avevano tutto per entrare in empatia?
Ricordo la prima volta che parlai di Romero a papa Giovanni Paolo II: era il 23 marzo del 1982. Mi ascoltò con grande attenzione, stavo assieme a padre Jesus Delgado, già segretario di Romero. L’arcivescovo non godeva di buona fama a Roma… tutte le carte che arrivavano erano contro di lui. In certo senso si potrebbe dire che veniva a Roma solo contro tutti. Papa Giovanni Paolo II comprese e cambiò, immediatamente, il suo giudizio. E ricordo le sue parole: “Romero è nostro, è della Chiesa”. Il resto è noto: giunto in Salvador, cambiò il programma per andare subito a visitare la tomba di Romero e nella celebrazione per i nuovi martiri volle scrivere di suo pugno il ricordo di Romero che non era stato neppure nominato.
C’è un messaggio che travalica la cornice storico – geografica e appare attualissimo. Romero reclamava il ripristino della democrazia “sostanziale”, sequestrata dai poteri forti e intimidita dalla minaccia terrorista. Francesco non perde occasione per ricordare che questo oggi è diventato un problema universale…
Credo che la beatificazione di Romero risponda a due grandi prospettive della storia contemporanea. La prima riguarda la Chiesa e il pontificato di papa Francesco. La beatificazione di Romero porta sugli altari il “primo martire” del Concilio Vaticano II. Con la sua morte gli assassini volevano far tacere la Chiesa del Vaticano II e in particolare quella interpretata dalla Chiesa latino americana con la scelta prioritaria dei poveri.
Romero beato significa confermare la profezia del Vaticano II, il Concilio che Paolo VI ha riassunto con l’immagine evangelica del Buon Samaritano che si china sull’uomo mezzo morto della società contemporanea. In questa linea si staglia anche la prospettiva che riguarda l’attuale situazione internazionale. La crescita di una violenza diffusa che ha nel terrorismo il suo culmine è contrastata in maniera alta dal martirio di Romero: la vita – dice al mondo il martirio di Romero – non va mai tolta a nessuno ma solo donata per il bene degli altri. Insomma la violenza terroristica trova in Romero la contestazione più radicale.