Via Crucis dei giovani a Narni
Siamo giunti in questa piazza provenendo da cinque punti diversi, come dai cinque continenti della terra. E non siamo venuti a occhi bassi e a mani vuote. Abbiamo alzato i nostri occhi e ci siamo accorti del buio che circonda la terra, ma non siamo fuggiti rinchiudendoci in noi stessi. Abbiamo voluto prendere le croci che rendono buia la vita degli uomini. Le abbiamo chiamate con il loro nome: sono i crocifissi dalla guerra, sono le vittime dell’odio e dell’ingiustizia, sono i morti per la fame e per l’indifferenza, sono i colpiti dallo sfruttamento, dalla droga, dalla prostituzione…Questa sera abbiamo scelto di stare accanto a queste croci che numerose sono piantate sulla carne della gente, dei piccoli e dei grandi, degli anziani e dei deboli. Sì, volgiamo stare accanto a loro, perché nessuno ci è estraneo. E nessuna croce ci è così lontana da non poterla accogliere. E più è grande e più attende consolazione.
Sta scritto: “Volgeranno gli occhi a colui che hanno trafitto!” Noi, questa sera, volgiamo lo sguardo a questi crocifissi. Sono tanti. Quante croci, quanti crocifissi! Li abbiamo portati accanto alla croce, al crocifisso. Anche Gesù non ha voluto essere crocifisso da solo. Egli sta sempre in mezzo agli altri. Anzi, potremmo dire, che rappresenta tutti i crocifissi del mondo. Si, questa sera, abbiamo davanti a noi la “montagna delle croci” di questo nostro tempo, il Calvario di oggi. “Ecco l’uomo” disse Pilato presentando Gesù coronato di spine. Si, ecco l’uomo! Questa croce ce lo mostra. E invita tutti a contemplarla perché nessuno dimentichi i crocifissi della terra. “Ecco gli uomini e le donne… i fratelli di Cristo!” E’ facile dimenticarci di loro; è facile abituarci alle immagini dure che la televisione e i giornali ci presentano. Dopo qualche giorno diventano subito immagini di repertorio. Vanno immediatamente in archivio. E andranno in archivio le colonne dei deportati, andrà in archivio lo sguardo spaurito dei bambini, andrà in archivio lo sguardo rassegnato dei vecchi. Alcune tragedie poi neppure giungono sui nostri schermi. Esse fin dall’inizio sono e restano nell’archivio segreto della storia di questo mondo; non certo sulla pelle di coloro che le hanno subite e che ancora le subiscono. E poi è pronta anche la scusa per potersene dimenticare: “non possiamo essere oppressi da queste immagini; abbiamo bisogno di vivere anche noi; e poi la vita è diventata più dura per tutti, anche per noi”.
Ecco allora accantonata la croce, allontanate le croci, e prevalere un nuovo disegno per il domani. Tutti, giovani e adulti, gente comune e responsabili della cosa pubblica, e talora anche i cristiani, tutti siamo pronti a costruire una società ricca, tranquilla e consumista ove non c’è spazio mentale per l’altro o per tutto ciò che va oltre se stessi e le proprie preoccupazioni. L’obiettivo è la tranquillità e il benessere per sé; e da ottenere subito. L’uomo e la donna occidentali, quelli che incontriamo a scuola, al mercato, in ufficio, per strada, sono ripiegati su di sé, direi concentrati su di sé. Qual è il loro problema? Essere soddisfatti, nel senso del piacere della propria vita, del proprio corpo, dei propri sentimenti. E quale lo scopo della vita? Essere tranquilli. Ma in questo modo stiamo costruendo un mondo di soli, di uomini e donne soli, di ragazze e ragazzi soli, di anziani soli…L’amicizia, quella vera, è rara, davvero rara. Tanto che per attirare un poco l’attenzione su di sé dobbiamo fare i salti mortali, tanto più alti quanto è più duro il cuore di chi ci sta vicino. La preoccupazione costante per noi stessi ci rende distanti gli uni dagli altri, anzi ci rende competitivi, concorrenti, potenziali nemici, e quindi porta a non fidarci mai l’uno dell’altro. Fin da bambini, infatti, ci sentiamo dire: “preoccupati di te!”, “pensa a te!”, “se non pensi tu a te stesso, nessun altro penserà a te”.
Cari amici, queste stesse parole, questa stessa esortazione, veniva fatta a Gesù mentre stava in croce: “salva te stesso!”, “salvati e ti crederemo!”. Glielo gridavano i sacerdoti, la gente, i farisei, i due ladroni. Era un coro unico: “salva te stesso!”. Era ed è il Vangelo unico di questo mondo: “salva te stesso!” Ma Gesù come poteva salvare se stesso, lui che era vissuto per salvare gli altri? Lo aveva detto: “non sono venuto per esser servito, ma per servire”. Fin dall’inizio della sua vita pubblica lo ha mostrato, quando si commosse sulle folle sbandate, stanche e sfinite come pecore senza pastore. Lui, buon samaritano, si è fermato lungo le strade degli uomini per curare chi era malato, chi era solo, chi era abbandonato, escluso, emarginato. Non ha mandato indietro nessuno. Non si è risparmiato in nulla. Ha dato tutto se stesso. Questa è la ragione profonda della croce. Gesù non voleva morire. E lo disse: “Padre, se è possibile allontana da me questo calice”. E sudava sangue per la paura e il dolore. Ma non poteva tradire il Padre, non poteva tradire il Vangelo e quegli amici che aveva radunato…li amava più della sua stessa vita. Per questo accettò la croce. Non c’era posto per uno come lui nel mondo. Come non c’è posto per chi pone l’amore al di sopra di tutto. Gesù poteva fuggire da Gerusalemme, e si sarebbe salvato; poteva fare qualche piccolo compromesso con Pilato, il quale peraltro glielo ha fatto capire, ma Gesù non poteva addomesticare il Vangelo, non poteva addolcire la robustezza e la serietà del vivere per gli altri e per il Padre. Non fuggì e accolse anche la croce. L’amore per il Signore è più forte dell’amore per sé. Per questo è morto.
Quella croce, questa croce, è il segno di un uomo che ama sino alla fine, è la manifestazione di una umanità alta, non banale, che trasformò quel patibolo infamante in un segno altezza morale indicibile. La croce era uno scandalo; potremmo immaginarla come l’odierna sedia elettrica. Chi la onorerebbe? chi la innalzerebbe? Noi si, onoriamo e innalziamo la Croce, perché quella croce indica la vittoria della vita sulla morte, la vittoria dell’amore sull’egoismo. Su quella croce, infatti, è stato sconfitto una volta per tutti l’amore per sé stessi. Da quel venerdì santo, l’egoismo non è più una legge inesorabile; e pensare solo a sé stessi non è più un istinto invincibile. Su quella croce ha trionfato l’amore per gli altri: Gesù sta sulla croce, non perché gli piaceva soffrire, ma perché ha amato il Vangelo e gli uomini più della sua stessa vita. In questo senso su quel legno è stato restaurato l’uomo.
Questo inizio di secolo ha bisogno di questa croce e di ciò che essa significa; ha bisogno di uomini e donne che l’accolgano e si stringano attorno ad essa come noi facciamo questa sera. Questo inizio di secolo ha bisogno che la croce non sia inghiottita dalla notte dell’egoismo, ma possa risplendere e indicare la via. Una via che è certamente religiosa, ma è anche umana, pienamente umana. Abbiamo bisogno dell’amore; abbiamo bisogno dell’incontro, non dello scontro; della forza della ragione e non della violenza che uccide e umilia. La croce è la forza dell’amore, è la forza del primato del voler bene, è la forza di poter legare la propria vita agli altri. La vita muore se non si trasmette; finisce se non si dona; non ha senso se è isolata. La croce di Gesù è la vita. E ce ne da una lezione anche di lì. Sulla croce non piange su di sé. E ne aveva non solo ragione, ma diritto. Vede l’anziana madre e il giovane discepolo. Forse pensa: “Che ne sarà di loro?” Rivolto alla madre le dice: “donna ecco tuo figlio”, e al giovane discepolo: “ecco tua madre”. E “da quel momento il discepolo la prese con sé”, chiude l’evangelista. La solitudine di quell’anziana fu vinta, come pure fu superata la solitudine di quel giovane. Da quella croce nasceva una nuova solidarietà, una nuova famiglia. Dalla morte nasceva una nuova vita. Quel legno iniziò a fiorire. Da quel tronco inchiodato spuntava il fiore dell’amore e della solidarietà. Cari amici, anche noi possiamo far fiorire le croci di questo mondo. Anche a ciascuno di noi è chiesto di “prendere con sé” quella madre, quel malato, quel carcerato, quel povero, quell’amico solo. Con l’amore, anche la croce più dura, può fiorire.